Nel suo “Lo spirito delle leggi” – Montesquieu, padre del principio della (equa) ripartizione del potere statale, muovendo dalla “eterna esperienza”, scriveva che qualunque uomo abbia un certo potere è portato ad abusarne, sicché per evitare l’abuso è necessario che “il potere arresti il potere”.
Il principio segnò poi la fine dello Stato assoluto – nel quale tutto il potere (di origine divina: “per volontà di Dio”), era concentrato nelle mani del Re irresponsabile “perché non sbaglia mai”) – ed alla instaurazione dello Stato di diritto – nel quale i poteri separati sono disciplinati dalla Costituzione, sia quanto ai soggetti che ne sono investiti quanto alle precise competenze.
Il potere, peraltro, non ha più origine divina, ma deriva dal patto tra gli uomini (“Il contratto sociale” di Rousseau), onde la responsabilità non è più verso il monarca, ma verso il popolo, al quale, appunto, i poteri direttamente o indirettamente, devono dar conto.
Il principio del “rendere conto” dell’esercizio del potere si trovava già affermato nella democrazia ateniese: ammoniva Eschine, vissuto nel IV secolo a. Cristo, grande oratore (avversario di Demostene), che chiunque esercita un potere pubblico deve risponderne.
Nella democrazia moderna i rappresentanti del popolo – cioè i parlamentari eletti nella canonica votazione – rispondono al popolo, periodicamente, per come hanno esercitato il potere ad essi delegato (onde si dice che il Parlamento è sovrano in quanto rappresenta il popolo sovrano). E gli altri poteri rispondono al Parlamento e, quindi, indirettamente, al popolo.
Il principio di responsabilità per l’esercizio del potere è basilare di ogni sistema di democrazia rappresentativa, giustappunto perché il potere è esercitato in nome del popolo sovrano. Ma, se osserviamo la nostra democrazia constatiamo che essa è connotata da anomalie in ordine al principio di responsabilità, giustappunto perché vi sono poteri esenti, qualcuno di fatto, altri di diritto, dalla responsabilità, vuoi verso il popolo, vuoi verso i suoi rappresentanti.
Analizzando, per prima, la posizione del Capo dello Stato, c’imbattiamo nell’articolo 90 della Costituzione che recita: “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri”. Per completezza di esposizione, bisogna pure dire che per l’art. 89 della Costituzione nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato da ministri competenti che ne assumono la responsabilità (ovviamente verso il Parlamento).
Ora, è assai difficile che un ministro rifiuti la controfirma (lo fece il Ministro Castelli ma il Presidente della Repubblica, che all’epoca era Carlo Azeglio Ciampi, ebbe la meglio sollevando conflitto tra poteri presso la Corte Costituzionale, la quale sconfessò se stessa, cioè la sua pacifica giurisprudenza); ed è quanto mai improbabile, poi, che il Parlamento metta in stato d’accusa il Presidente della Repubblica, pure anche quando, come nel caso dell’attuale inquilino del Quirinale, commetta violazioni della Costituzione, venendo meno, tra l’altro, al giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione (il riferimento è alla nomina a senatore a vita di Mario Monti. in violazione dell’art. 59 della Costituzione, all’incarico, poi, allo stesso Monti, anziché ad un politico eletto dal popolo, di formare il Governo, all’avere menomato la sovranità nazionale subordinandola al volere della Cancelliera Angela Merkel; e mi fermo qui).
Anche per questo, cioè anche per la irresponsabilità di un Presidente della Repubblica che tracimi dai limiti fissati dalla Costituzione ed assuma la posizione di capo “regale” dello Stato, è necessario attuare la Repubblica presidenziale, per modo di ristabilire l’imprescindibile responsabilità, senza la quale la democrazia è tradita nel suo fondamento logico-giuridico.
Altro potere irresponsabile è la Corte Costituzionale: i quindici giudici costituzionali che la compongono non hanno legittimazione popolare e, quindi, non rispondono al popolo per l’esercizio delle loro funzioni. Infatti, sono nominati per due terzi da poteri a loro volta irresponsabili (cinque dal Presidente della Repubblica, cinque dalle supreme magistrature, il rimanente terzo dal Parlamento in seduta comune). I Padri costituenti confidavano nella grande rettitudine delle persone chiamate all’altissima funzione di controllo della legittimità costituzionale delle leggi, ma tennero a precisare che i giudici non potevano sindacare il merito delle leggi sottoposte al loro esame.
L’on. Meuccio Ruini, presidente della Commissione che redasse il Progetto di Costituzione, precisò infatti che, dicendo controllo di “legittimità costituzionale” delle leggi e non costituzionalità, si voleva escludere appunto ogni giudizio della Corte nel merito dei provvedimenti legislativi. Insomma, i giudici costituzionali hanno funzione appunto giurisdizionale, allo stesso modo dei giudici della Corte di Cassazione, che decidono soltanto della legittimità delle sentenze. Sennonché nei lunghi anni della sua attività la Corte ha mostrato una marcata propensione a diventare giudice regale, cioè a porsi come controllore politico del Parlamento. Lo strumento cui spesso la Corte ha fatto riferimento è il principio di uguaglianza, che costituisce in mano ai giudici costituzionali una specie di “gomma elastica”, la quale si accorcia e si allunga a seconda dei casi (si è parlato, giustamente, di giurisprudenza costituzionale creativa, dettata, però, da ragioni diverse dalla pura interpretazione delle norme).
Perciò la domanda che oggi si deve porre alla riflessione della classe politica e dei giuristi non è quella relativa ad una più accettabile demarcazione dei limiti del potere della Corte (che come vedremo è la stessa questione per i giudici comuni), quanto quella relativa alla sua responsabilità.
Le sentenze della Corte non sono cose di poco conto, perché quando invadono il campo riservato esclusivamente alla legislazione (che è per se stesso il regno dell’opportunità), minano – col pretesto del raffronto di legittimità tra legge e precetti costituzionali – il principio fondamentale della democrazia, quello della sovranità popolare, della quale, appunto, la legge è espressione genuina.
Il guaio è che il virus della politicizzazione non ha risparmiato neppure questo alto Consesso: in proposito sono significative quelle sentenze che hanno riguardato Berlusconi, che all’epoca era presidente del Consiglio dei Ministri: la Corte ammise che la funzione di capo del Governo era degna di considerazione ai fini di tutela giuridica, ma poi fece prevalere, certamente per motivi politici, il principio di uguaglianza, il quale per unanime giurisprudenza della stessa Corte e per unanime dottrina non significa che la legge non possa fare discriminazioni, ma significa soltanto che queste debbano essere plausibili, cioè giustificabili.
Infine, potere sommamente irresponsabile è la magistratura, che è di natura burocratica ed è potere sovraccarico, in quanto ingloba illegittimamente il pubblico ministero, ed è un potere forte, che tocca diritti fondamentali dei cittadini, soprattutto quello della libertà, senza risponderne mai.
Siamo l’unico Paese al mondo in cui il potere giudiziario è indipendente da qualsiasi altro potere, pur essendo una burocrazia irresponsabile ed è esente da rendiconto al popolo, potere che è in grado di sconvolgere il sistema democratico, ponendosi come “contropotere”.
Attenzione però: non sono soltanto i singoli poteri irresponsabili a dare preoccupazione, ma è il loro collegamento che ha formato un blocco di potere conservatore, il quale contrasta ogni tentativo di modificazione del sistema. Berlusconi dice il vero quando denuncia l’intreccio tra magistratura e Corte costituzionale ed anche capo dello Stato. Qui non c’è spazio per la dimostrazione, ma non escludo di fornirla in altra occasione, con l’indicazione dei principi del costituzionalismo moderno.
A questi tre poteri irresponsabili recentemente si è aggiunto il caso del senatore a vita (per questo irresponsabile), Mario Monti, il quale è recentemente entrato nella competizione elettorale, quale agente speciale della Germania e dei poteri forti, nazionali ed europei.
Tutto è perduto, quindi, per la democrazia liberale? Alziamo bandiera bianca? La battaglia non è persa. Ma bisogna passare al contrattacco: riportare i magistrati sui binari della Costituzione (è cosa giusta e possibile); rendere i giudici costituzionali (adottando il sistema elettivo ovvero quello del concorso) e, ma da subito, contrastare la partecipazione alla lotta politica di Monti, che è incompatibile – quanto meno sul piano logico – con la sua carica di senatore a vita. Invero delle due, l’una: o Monti rinuncia alla carica di senatore a vita, per altro acquisita in violazione della Costituzione (questa prevede espressamente la rinunzia solo per i senatori a vita degli ex presidenti della Repubblica, ma credo valga anche per gli altri senatori), ovvero Monti rinunzi alla lotta politica, che a mio avviso è propedeutica alla salita al Colle con l’aiuto dei comunisti, dei poteri forti e della lobby mediatica fiancheggiatrice.
Andreotti diceva che a dir male si fa peccato, ma spesso ci si indovina. L’eterna esperienza! E’ vero che nel nostro Paese abbondano gli azzeccagarbugli, ma a tutto c’è un limite.
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