Se intendiamo il socialismo come una organizzazione partitica ritengo di poter dire che è morto (o ridotto al lumicino) e lo dico con rammarico perché in un sistema di democrazia evoluta c’è bisogno di due forze antagoniste, ma autenticamente democratiche che si alternano al potere. Aggiungo al rammarico lo sdegno, perché il partito è morto ammazzato per mano di un gruppo di magistrati meneghini: i quali avevano dato vita, nel 1993-94 ad una performance giudiziaria, definita da essi stessi «rivoluzione legale e saggia» (così Giulio Catelani, Procuratore Generale a Milano).
In verità non fu vera gloria, tanto meno rivoluzione, perché non tendeva al sovvertimento del sistema politico ma, anzi, ad una sua riaffermazione mediante la difesa della legalità del sistema; in realtà però, a leggere bene la drammatica vicenda, il fine della rivoluzione si riduceva ad un semplice cambio degli attori politici (il partito comunista al posto di quelli che avevano avuto il governo del paese dal 1948); né fu vicenda legale, perché anzi, furono violati tutti i canoni legali previsti dal nuovo codice di procedura penale del 1988, estorcendo confessioni (una moderna tortura): “noi non incarceriamo la gente per farla parlare… la scarceriamo dopo che ha parlato”, affermò l’ineffabile ex Procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli (il Giornale del 4.6.1993).
Una Delegazione della Federazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo, venuta in Italia in seguito alla vasta eco della vicenda, non potette fare a meno di denunciare i metodi engagé dei magistrati “purificatori”, nella inchiesta sulla corruzione dei politici; metodi che – secondo la Delegazione – potevano sollevare problemi delicati nel rapporto tra i poteri dello Stato. Ma quella Delegazione non seppe il seguito della rivoluzione: furono annientati tutti partiti democratici, salvi i comunisti che si apprestavano a conquistare il Palazzo d’inverno. La macchina da guerra approntata dal Pci avrebbe raggiunto lo scopo se a rompergli le uova nel paniere non fosse intervenuto un certo imprenditore milanese, di nome Silvio Berlusconi: ma questo è un altro discorso che, al più, può essere indicativo delle vere ragioni dell’inchiesta sulla corruzione, condotta dalla Procura milanese.
Quello di cui qui intendo parlare è la distruzione, per mano dei pubblici ministeri meneghini, del glorioso partito socialista italiano, che Bettino Craxi, suo leader, aveva definitivamente emancipato dai comunisti coi quali aveva stretto un patto di collaborazione durante la clandestinità.
Vale la pena raccontare questo distacco, partendo, però, da lontano, cioè dal 1922 (Congresso di Livorno), quando dal partito socialista italiano si staccarono gruppi di aderenti (Togliatti, Gramsci, ed altri), che dettero vita al partito comunista italiano (sulla scia della rivoluzione russa dell’ottobre del 1917, che aveva realizzato la separazione definitiva del comunismo dal socialismo).
I comunisti si differenziavano dai socialisti per il diverso modo di affrontare la trasformazione della società: i primi puntavano sulla rivoluzione, che ritenevano la sola capace di abbattere il capitalismo borghese e di tutti gli enormi danni sociali prodotti (impoverimento progressivo del proletariato); i secondi, invece, volevano che si attuassero pacificamente riforme idonee ad evitare o, quanto meno, a ridurre quei danni.
Già Friedrich Engels nel 1988 aveva avvertito che il Manifesto (quello di Karl Marx) non si sarebbe mai potuto chiamare socialista perché col termine socialista si indicavano, da una parte, gli utopisti e, dall’altra, “i molteplici ciarlatani sociali che intendevano combattere il capitalismo senza rinunciare al capitale e al profitto”.
Con Lenin la differenza suddetta fu ancora più marcata perché teorizzava il rifiuto anche della democrazia borghese, vale a dire la sottoposizione della minoranza alla maggioranza – “la violenza di una classe su un’altra”, diceva -, e la sostituzione del parlamento con i soviet. Tuttavia, prevalse la tesi della compatibilità tra socialismo e democrazia. Lo stesso Engels nel 1895 (l’anno della sua morte) aveva osservato che il comunismo poteva profittare degli stessi strumenti che la borghesia aveva predisposto per mantenere il suo potere – le regole costituzionali, le vie legali -; anzi – diceva – i sovversivi potevano prosperare meglio nella legalità che nelle sommosse: i partiti dell’ordine avrebbero conosciuto la loro rovina per via di quel medesimo ordinamento che essi avevano creato. Da qui la doppia morale dei comunisti italiani.
A farne le spese sono stati in primo luogo i socialisti italiani che poco alla volta videro diminuire i loro consensi appunto per la concorrenza sleale del Pci che, a parole, usando cioè la menzogna, professava la fede della legalità borghese e nella Costituzione, ma in realtà operavano per l’abbattimento della democrazia borghese. Non c’è qui spazio per ricordare tutti i comportamenti comunisti tesi alla configurazione della “società socialista”, il sole dell’avvenire.
Invece, i socialisti avevano fatto una notevole evoluzione reale dopo le nuove posizioni del revisionista comunista Eduard Bernstein, il quale aveva affermato che “non esiste idea liberale che non possa essere considerata come propria dal socialismo; e che, in particolare, l’uomo deve essere lasciato libero nelle scelte, così economiche come politiche. Da qui le basi teoriche della socialdemocrazia moderna (in Inghilterra si chiama laburismo), la quale costituisce uno dei pilastri delle forze politiche europee e della democrazia liberale.
In Italia, dopo l’ingloriosa caduta del muro di Berlino, cioè dopo il default del comunismo sovietico, i comunisti italiani – che si affrettarono a cambiar nome, ma non a ripudiare l’ideologia marxista-leninista – rifiutarono di confluire nel Psi, come proponeva Bettino Craxi per formare un grande partito della sinistra in grado di riformare il sistema politico.
Per di più, furono essi persino ingrati a Craxi, che ne aveva perorato l’entrata nei ranghi della socialdemocrazia europea. Oramai – diceva Craxi – i comunisti si stavano evolvendo.
Paradosso italiano: i comunisti sconfitti dalla storia sono, sebbene sotto falso nome, sulla breccia, cioè sulla scena politica italiana ed europea: il passato dell’illusione non muore mai e continua quindi l’inganno di una fetta dell’elettorato, mentre i socialisti che avevano avuto ragione, credendo nella ideologia riformatrice possibile, sono scomparsi dalla scena politica, massacrati dagli sconfitti.
La conclusione, amara e deprimente, è che il partito socialista italiano è morto (non calcolo sparuti gruppi di ex socialisti che si sono appropriati della bandiera socialista e rifugiati sotto l’egida dell’assassino partito comunista, oggi “partito democratico” ed annesso Sel, pur esso comunista).
Pertanto è lecito dire che la sinistra italiana è costituita da una varietà di morti viventi e da un serotino compromesso storico tra comunisti e democristiani; tutti a lottare per agguantare il potere: non possono promettere se non sogni, dietro i quali si nasconde il nulla, salvo l’inasprimento fiscale per continuare a foraggiare la nomenclatura: non hanno né un credibile programma né un leader capace di imprimere una svolta alla crisi politica, né hanno idee adeguate a far uscire il paese dalla recessione economica che Monti non ha fatto altro che aggravare, se non proprio a causare, per obbedire ai poteri economici e finanziari europei.
Tornando alla sinistra, è da osservare che essa è sorretta da un blocco di poteri forti, da poteri occulti e comunque da poteri conservatori: altro che progressisti! L’osservatore attento e neutrale della nostra democrazia non tarda ad accorgersi che la sovranità popolare è soltanto una ipocrisia: ed invero, per esemplificare, la Costituzione, è stata messa da parte, sia pure incorniciata, ed stata coniata un’altra Costituzione, cioè tessuto normativo che i giuristi, non a torto, chiamano “costituzione materiale”, cioè la Costituzione effettivamente vivente. È stata configurata una democrazia anomala: a differenza della democrazia tedesca – che espulse dal proprio ordinamento il partito comunista, ritenuto antidemocratico, noi abbiamo mantenuto il più forte partito comunista dell’Europa occidentale, il quale, pur nel rispetto formale della democrazia liberale, conserva lo stigma del partito antisistema, in quanto ha operato ed opera al fine della costruzione in Italia di una repubblica popolare, stile sovietico. Per esemplificare: se i comunisti vincono alle urne vale il responso popolare, viceversa se sono sconfitti fanno valere la democrazia sostanziale, i voti non si sommano ma si pesano. Cioè distinguono a loro uso una democrazia formale e una democrazia sostanziale, il che significa che la sovranità popolare conta o non conta, a seconda della convenienza agli interessi dei comunisti.
Ora, alla stregua delle sopraddette circostanze, mi pare di poter dire che il cambiamento del sistema politico italiano passa necessariamente per il rinnovamento della sinistra italiana, non nel senso renziano dello svecchiamento (rottamazione) del personale politico, ma nel senso di un adeguamento culturale e strutturale al sistema della socialdemocrazia europea.
Posso quindi rispondere alla domanda che mi sono posto all’inizio: il socialismo non è morto affatto, vive nell’aspirazione – se volete nei sogni – degli uomini di ogni luogo, perché la loro stella polare rimane saldamente ancorata ai valori dell’eguaglianza e della libertà.
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