COSTRUIAMO LA DEMOCRAZIA

Allorché nel novembre dello scorso anno fu catapultato sulla scena politica il governo tecnico presieduto da Mario Monti si gridò alla sospensione della democrazia; ma – si obbiettò – siccome il Parlamento gli ha accordato la fiducia, a sensi dell’art. 94 della Costituzione, e ne ha sempre avallato i provvedimenti, si deve ritenere che il vulnus alla democrazia sia stato sanato. Sennonché non è proprio così, perché i parlamentari in democrazia debbono rispettare la volontà del popolo sovrano, onde resta, tutt’altro che infondata, la questione di illegittimità costituzionale di tali comportamenti e decisioni (ad esempio l’imposizione dell’Imu e di altre gabelle).

D’altronde, nessuno può affermare che gli italiani abbiano accettato la spietata politica del rigore (per altro finalizzata a rimediare al deficit del debito pubblico, in gran parte, risalente alla responsabilità della classe politica della prima repubblica), tanto più che al rigore non si è accompagnato un corposo taglio al costo ingiustificato della politica e, prima di tutto, al costo delle caste use a saccheggiare, senza ritegno alcuno, le casse dello Stato.

Oggi del nostro futuro non v’è certezza: sul piano dell’economia, come su quello della politica: non sono consentite, invero, previsioni ottimistiche, così sull’evoluzione positiva della crisi economica, che sull’attuazione delle necessarie riforme istituzionali, stante – su questo secondo versante – da una parte, l’elevato tasso di assenteismo alle urne (indice di disaffezione alla democrazia) e, dall’altra, l’apparizione di fuochi fatui promananti dal morto sistema politico: nuove formazioni politiche emergono sulla scena, capaci, però, soltanto di far da megafono al dissenso (ancorché giustificato) verso l’attuale classe dirigente, ma non di configurare una credibile alternativa a questo sistema. Trattasi, come pare evidente, di operazioni di mero becchinaggio.

Però, quello che più deprime è il constatare che i partiti non sembrano rendersi conto della gravità della situazione, tutti intenti come sono nella lotta per la conquista del potere (le difficoltà per emanare una nuova legge elettorale sono emblematiche); ciò dà la misura di quanto siano lontani dai problemi della gente e dall’obbligo urgente di varare nuove regole per modernizzare il sistema politico e rendere governabile il Paese.

Da qui l’imperativo di una profonda riflessione, non solo da parte della classe politica, maggiormente responsabile, ma anche da parte di quella che si suole chiamare la ”società civile”: insomma tutti siamo chiamati a riflettere, non solo per riacquistare il benessere perduto – che è certamente un obiettivo primario (primum vivere) -, ma anche per realizzare una democrazia al passo dei Paesi progrediti, efficienti, garanti dei diritti individuali e del funzionamento dello Stato.

Già, la democrazia! ma: cos’è la democrazia? e, poi, l’Italia è una democrazia e di che tipo?
E’ ancora utile ricordare oggi il dibattito politico che si sviluppò dopo la sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 17 agosto 1956, la quale decretò il bando del Kommunistiche Partei Deutsclands, ritenuto non democratico. La Corte aveva sentenziato sulla base dell’art.21, secondo comma della Costituzione tedesca, che sancisce: “I partiti, che per le loro finalità o per comportamento dei loro aderenti si prefiggono di danneggiare od eliminare l’ordinamento democratico e liberale o di minacciare l’esistenza della Repubblica Federale Tedesca, sono incostituzionali. Sulla questione di costituzionalità decide il Tribunale Costituzionale Federale”.

Non conosco la motivazione di quella sentenza, ma sembra di poter dire che quel giudice ritenne che il partito comunista, vuoi per ideologia (marxista-leninista), vuoi per prassi (modello lo spietato regime di Stalin), vuoi, infine, per finalità (instaurare un regime dispotico del tipo sovietico, del quale già allora si poteva dire tutto il male possibile), era da bollare come antidemocratico.

Il quesito che si poneva, di conseguenza, alla cultura politica europea si articolava in questi termini: la democrazia è un valore – in quanto insieme di principi maturati nella coscienza popolare nel corso dei secoli ed a seguito di conflitti anche sanguinosi – oppure è un metodo? Considerare la democrazia come un mero rito che escluda ogni considerazione di carattere morale comporta conseguenze inaccettabili dalla coscienza sociale in un determinato contesto storico, come ad esempio l’instaurare con il voto libero dei cittadini un regime dittatoriale (accadde in Argentina nel 1946, se ricordo bene, ove una libera consultazione elettorale portò ad un regime fascista). Per converso considerare la democrazia come mero valore, tesa ad una finalità che trascenda la volontà dei cittadini significa accettare qualsiasi regime, anche se non basato sulla volontà popolare.

Parrebbe allora plausibile ritenere che i due modelli di democrazia – valore e metodo – debbono combinarsi in modo che l’uno non stia senza l’altro: la democrazia come metodo, in quanto avvalora la sovranità popolare, di questa realizza il fondamento suo più proprio, cioè il governo del popolo, mentre la democrazia come valore incarna ideali cui tende ogni popolo civilizzato.

Venendo ora al caso italiano è da osservare, in primo luogo, che la nostra Costituzione configura una democrazia liberale, una “società aperta” – per dirla con Popper -, che fa dell’uomo il centro dell’ordinamento giuridico e che assicura ampie libertà ai cittadini, come, ad esempio, quella dell’art. 21 (libertà di esprimere in qualsiasi modo il proprio pensiero) o come quello dell’art.18 (libertà di associarsi liberamente, senza autorizzazione, ma per fini leciti, salvo il disposto della XII disposizione transitoria, che vieta la riorganizzare. sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista). Inoltre, la Costituzione prevede le “regole del gioco”, cioè l’iter per la costituzione ed il funzionamento delle istituzioni democratiche (anche se sul punto c’è l’esigenza dell’aggiornamento, per rendere più efficiente l’apparato dello Stato, in armonia con i tempi nuovi).

Però, se si osserva la prassi si scopre che il sistema presenta connotati che contraddicono il modello di una democrazia liberale: invero abbiamo un partito comunista che, dopo la caduta del muro si è rinnovato solo nel nome (prima Pci, poi Pds, poi ancora Ds, infine Partito democratico), in quanto, salva una piccola minoranza, il grosso della sua forza – che ambisce a governare – è tenacemente ancorato alla concezione statalista (staliniana) della società, cioè concepisce ancora la democrazia come Stato padrone dell’uomo. Per di più, quanto al metodo democratico, non vige nella prassi la regola aurea della democrazia, secondo la quale chi vince le elezioni ha il diritto di governare e chi perde non deve ostacolarne l’attuazione del programma.

Invece, per i comunisti l’avversario politico è un nemico da abbattere a qualsiasi costo ancorché abbia vinto le elezioni: si è perfino giunti a teorizzare la “democrazia sostanziale” (il bene del popolo in armonia della valutazione del principe), che deve avere la preminenza sulla “democrazia formale”, cioè sulla maggioranza aritmetica decretata dalle urne (come è noto era la tesi di tutti i partititi comunisti). Insomma, se vincono le elezioni, i comunisti sono per la democrazia formale, viceversa, se vincono gli avversari vogliono far prevalere la democrazia sostanziale. E, siccome l’ordinamento democratico liberale non prevede la democrazia sostanziale questa deve realizzarsi anche con mezzi non leciti, cioè combattendo gli avversari su un terreno non democratico, ove sono veicolati arbitri e menzogne, che alterano la democrazia. Oltre la gogna mediatica, i comunisti usano la magistratura, in forza di un tacito accordo di reciproco aiuto, per il quale, da una parte, essi sostengono qualsiasi pretesa dei magistrati (donde la crescita di questi, abnorme ed inconciliabile col sistema democratico); dall’altra, godono di una copertura sul fronte giudiziario. In nessun Paese a regime liberaldemocratico, un capo di governo scelto in legittima competizione elettorale venga sottoposto ad assillante persecuzione dei pubblici ministeri burocrati ed irresponsabili (non raramente assecondati dai giudici, loro colleghi), sia nei confronti di qualsiasi potere dello Stato che di fronte al popolo sovrano.

E’ deprimente concludere, allora, che il sistema italiano non è in regola con i principi della democrazia, soprattutto perché non sono in vigore regole condivise per il funzionamento dello Stato. E, finché permarrà da noi un sistema ed un antisistema (per dirla con Napoletano: due schieramenti politici tra loro incompatibili) non avremo la democrazia di tipo occidentale, ed assisteremo al decesso lento ed inesorabile della Repubblica, dal cui sepolcro emergono fuochi fatui, di cui sopra si è detto, destinati quindi all’effimero.

Ed allora: che fare? per il cambiamento non bisogna fare affidamento sulla classe politica, che ha dato abbondante prova di esserne incapace. E’ necessaria, invece, l’iniziativa popolare. Ma, come. scriveva Tocqueville, la sovranità del popolo postula “l’esistenza di una società molto civile ed istruita“. Da noi è possibile? Sembrerebbe di no, considerando la nostra storia secolare ed il nostro carattere, ma non dobbiamo disperare, dobbiamo tentare ed avere fiducia.


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