Se Sparta (la sinistra) piange Atene (lo schieramento opposto) non ride.
Si è visto nel precedente scritto come, caduta ingloriosamente l’ideologia comunista, e spazzata via dalla rivoluzione delle toghe il socialismo democratico, vittorioso sul comunismo, a rappresentare la sinistra politica sono oggi prevalenti i resti di quel che fu il partito comunista, orfani di una ideologia utopistica e perciò incapaci di un progetto credibile per il governo della società del terzo millennio.
Cerchiamo ora di vedere cosa è la destra (in realtà il centro e la destra).
Dopo la caduta del muro di Berlino – che rappresentò plasticamente la fine dell’impero sovietico – continuarono a governare l’Italia la Dc ed i suoi satelliti (Psi, Psdi, Pri, Pli), ma investiti dalla furia giacobina dei pubblici ministeri milanesi si eclissarono. Subentrarono governi tecnici (Giuliano Amato, dal 28 giugno 1992 al 22 aprile 1993, cui succedette Carlo Azeglio Ciampi, che governò fino al 16 aprile 1994). Intanto i comunisti, travolti dal tracollo dell’Urss, però scampati (chi sa perché) all’inchiesta giudiziaria, preparavano la “gioiosa macchina da guerra” che avrebbe dovuto, nella loro intenzione, portarli alla conquista del “Palazzo d’inverno”.
Ma accadde l’imprevisto: scese nell’agone politico un alieno, un imprenditore milanese, assolutamente estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, il quale fermò alle elezioni politiche del 27 marzo 1994 la macchina da guerra con un’idea geniale, degna di un moderno Clausewitz: creò un nuovo partito (Forza Italia) che legò a sé in un doppio modo, a sud l’Alleanza Nazionale (ex Msi) ed a nord la Lega”.
Il merito di Berlusconi non stava però soltanto nella strategia, bensì anche nell’aver intercettato la volontà di cambiamento della maggioranza del popolo, stanca di una classe dirigente, incapace e corrotta. Infatti, nello “scendere in campo”, prometteva di modificare il sistema politico in senso liberale, allo stesso modo di tutte le grandi democrazie occidentali e di spazzare via tutti quegli aspetti di socialismo reale che connotavano ancora il sistema, stante l’egemonia comunista.
Prometteva, cioè, di costruire un’Italia liberale in politica e liberista in economia, proprio come nelle migliori tradizioni della destra italiana (la destra storica) ed europea: una società libera, fondata sulla libertà, sul libero mercato ma anche sulla solidarietà tra gli uomini: connotati ideologici che portarono Forza Italia ad aderire al partito popolare europeo (Ppe). Per la sua carica fortemente innovativa Forza Italia non poteva definirsi partito conservatore; al contrario ben poteva vantare di essere, essa sì, progressista. Ovviamente Forza Italia si opponeva alla sinistra, della cui metamorfosi in senso liberaldemocratico non credeva affatto, sia perché la cultura restava la stessa di sempre, sia perché la classe dirigente non si era affatto evoluta, anzi era rappresentata dagli stessi uomini del vecchio partito comunista.
Sennonché alla netta connotazione programmatica in senso liberale di Forza Italia, specialmente, del suo leader, non è corrisposta una altrettanto netta e totale applicazione politica del sistema liberaldemocratico.
E ciò per un insieme di ragioni, delle quali qui non è assolutamente possibile parlare e neppure sommariamente indicare. Una cosa appare evidente: sul piano politico ed in particolar modo su quello dell’organizzazione dello Stato il centro destra non ha saputo realizzare li Paese genuinamente liberale che prometteva. Cioè, non ha saputo garantire un sistema di libertà, sicché ha perso o, quanto meno, ha sbiadito la sua più vera identità, di essere, appunto, il polo delle libertà.
La cartina al tornasole che dà la prova di questa mancanza o perdita d’identità è data dalla posizione politica in ordine a due aspetti particolarmente significativi per un sistema veramente liberale: il principio della divisione equilibrata dei poteri dello Stato ed il principio di responsabilità per l’esercizio del potere.
Come è risaputo, mentre nello Stato assoluto tutto il potere era concentrato nella persona del sovrano (o del Principe nei territori costituiti in Principati), sicché il Re di Francia, Luigi quattordicesimo, poteva dire “lo Stato sono io” ed era detto il “Re sole” proprio perché tutto girava attorno a lui, invece nello Stato moderno, o Stato di diritto o Stato costituzionale, ogni aspetto, soggettivo ed oggettivo, è regolato dalla legge. Montesquieu, autore della nota opera “Lo spirito delle leggi” e padre del principio della separazione dei poteri statali, muovendo dalla “eterna esperienza”, più che da postulati teorici, sosteneva che chiunque è investito di un potere è portato ad abusarne; onde, concludeva: “perché non si possa abusare del potere bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere”. Perciò i poteri dello Stato, che allora erano individuati in quello legislativo, esecutivo e giurisdizionale, dovevano essere non solo temperati, ma tra loro coordinati, per modo che nessuno di essi potesse prevaricare gli altri. Aggiungeva poi che presso ogni organo giudiziario era istituito un pubblico ufficio del Governo al fine di promuovere l’azione penale.
Per quanto riguarda il principio di responsabilità, si può ricordare Eschine, grande oratore ateniese ed avversario di Demostene, vissuto nel quarto secolo avanti Cristo, il quale affermava che chiunque esercita un potere pubblico deve renderne conto.
Ma è accaduto in Italia che, ad opera di Togliatti, il potere giudiziario inglobasse l’ufficio della pubblica accusa, cosa che, da una parte, ha fatto del potere giudiziario un potere super (sovraccarico) e, dall’altra, ha tolto al Ministro di giustizia la naturale direzione della politica criminale, il tutto in violazione del principio di divisione razionale dei poteri dello Stato, con conseguente conflittualità tra gli stessi e con predominio del potere delle toghe sugli altri poteri, direttamente (Parlamento) o indirettamente (Governo) rappresentativi, invece, della sovranità popolare.
Ancora più grave (ma qui la colpa fu dei Costituenti, che non previdero la metamorfosi del giudice, in forza dello stato sociale – il welfare o Stato Provvidenza – che avevano prefigurato, da “bocca della legge” a compartecipe del farsi e rifarsi dell’ordinamento giuridico) è l’aver configurato il potere giurisdizionale come potere burocratico – quindi esente da rendiconto al popolo – e come potere autonomo ed indipendente da qualsiasi altro potere – quindi esente da ogni controllo che non sia domestico, cioè gestito da esso stesso (impugnazioni e potere disciplinare).
È questo il sistema liberale promesso? è questa la tutela della libertà, promessa? lasciando i cittadini sostanzialmente indifesi di fronte ad un potere incontrollabile ed (illimitatamente) irresponsabile, perciò potenzialmente arbitrario, potere che non ha l’eguale tra le democrazie non di facciata?
Non sto diffamando un potere dello Stato, il più nevralgico in un sistema liberale; sto solo constatando l’anomalia della istituzione giudiziaria italiana, rispetto alla Costituzione ed ai più basilari principî di ogni sistema democratico.
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