GIUDICI E PUBBLICI MINISTERI

Nel linguaggio corrente, giornalistico, ma anche politico e perfino tra coloro che invece dovrebbero tenere alla chiarezza dei concetti, si riscontra confusione sulle figure di giudice e di pubblico ministero; tanto da ingenerare disorientamento nell’opinione pubblica che non è adeguatamente informata o, peggio, è disinformata. Soprattutto la confusione deriva dalla mancata conoscenza della figura del pubblico ministero nel suo aspetto ontologico e nel suo divenire nel corso della storia, nonché nel suo netto differenziarsi, per funzioni, dalla figura del giudice.

Quindi, è opportuno ritornare indietro nel tempo e ricordare quando gli uomini lavavano col sangue le offese che ricevevano, adottando il millenario, biblico criterio “occhio per occhio, dente per dente”. Poi venne il tempo della riflessione: continuare a quel modo avrebbe significato l’estinzione della specie umana: siamo agli albori della civiltà; non alludo all’epoca mitologica, alla nemesi nella quale la giustizia riparatrice e punitrice era opera di una dea, figlia dell’Oceano e della Notte, divinità che distribuiva a ciascun mortale la sua sorte secondo il merito e a ciascuno la sua punizione, secondo la colpa. Siamo, invece, ad una epoca nella quale gli uomini risolvevano i loro conflitti sottomettendosi ad un potere superore e neutrale, dapprima alla tribù di appartenenza, che decideva chi tra i litiganti avesse ragione e chi invece torto e, quindi, chi dovesse essere punito e come. Il concetto di giudice, rappresentato dalla tribù, cioè dalla intera elettività ha attraversato i millenni e lo ritroviamo, ancorché ridimensionato, nell’attuale tribunale (tribunal nel linguaggio inglese), quale soggetto/organo deputato a risolvere i conflitti tra privati e tra privati e lo Stato, ovvero ad irrogare sanzioni per i colpevoli di reato.

E’ intuibile come nel trascorrere dei secoli i connotati del giudice abbiano subito diverse metamorfosi, pur restando identica la sua funzione di soggetto deputato a comporre conflitti sociali e ad irrogare pene. Già i Sumeri, alcuni millenni prima di Cristo, si diedero dei giudici e dei codici, con la funzione di amministrare giustizia: è noto il Codice di Hammurabi che, però attinse al codice sumero di Urokagina, di molti secoli anteriore. I giudici erano singoli o collegiali, a seconda dell’importanza della causa. In prosieguo i giudici sono diversamente connotati, a seconda del tipo di organizzazione politica della società o a seconda del tipo di processo nel quale operavano. Abbiamo avuto figure di giudici professionali e di giudici burocrati, figure di giudici inquisitori e di giudici al di sopra delle parti, che ricevono da queste il materiale probatorio sul quale sentenziavano; abbiamo giudici responsabili e giudici irresponsabili (come nel caso italiano). Ma il connotato strutturale del giudice è restato sempre quello di soggetto deputato ad applicare la legge (o della norma consuetudinaria) nei casi di conflitti tra i cittadini, ovvero di irrogare sanzioni ai colpevoli di violazioni definite reato. In conclusione, giudice è colui che ha la potestà di applicare la legge nei casi che vengono alla sua competenza (jurisdictio, giurisdizione), compresa il potere di applicare sanzioni penali.
La figura del pubblico ministero, che compare molti secoli dopo quella del giudice, risponde, invece, all’esigenza che il giudice sia messo in moto da una persona che rappresenti una delle parti del processo: dovendo essere il giudice estraneo alla lite, deve essere messo in moto da un soggetto (l’accusatore nelle cause penali, l’attore nei giudizi civili). I romani esprimevano il concetto dicendo ne procedeat judex ex officio.

Dapprima a provocare il processo era un soggetto (l’offeso dal reato o un suo congiunto); ma esistevano anche accusatori professionali, come nella Grecia precristiana i “sicofanti”, i quali, però, godevano di cattiva fama perché, avendo diritto ad una parte del patrimonio dell’accusato riconosciuto colpevole, spesso si abbandonavano ad accuse calunniose. Anche nell’antica Roma l’accusatore era guardato con sospetto, tanto che gli s’imponeva il giuramento di non elevare l’accusa al solo fine di nuocere all’accusato; e se l’accusato fosse risultato innocente l’accusatore veniva punito con la stessa pena che sarebbe stata inflitta all’accusato colpevole (la legge che ciò prevedeva era detta legge del taglione). A partire dell’età imperiale a Roma l’accusa cessò di essere necessaria per l’apertura del processo: un delegato dell’imperatore aveva la completa competenza della causa, dalla promozione alla decisione. Il processo aveva perduto il carattere accusatorio e si era trasformato in inquisitorio: i ruoli di accusa e di giudice si confusero al cui posto subentrò la figura del giudice “imperatore”.

Questa situazione durò parecchi secoli finché, nel tardo medioevo, non venne ripristinata la differenza tra giudice e accusatore. Avvenne che l’avvocato del Re (il procuratore del Re) sollecitava il giudice ad iniziare le cause penali, per modo che le multe inflitte ai colpevoli potessero essere incamerate dal Re e rimpinguare le casse dell’erario, sempre deficitarie a causa delle iperboliche spese dell’apparato governativo (proprio come oggi). Emerge così l’istituto processuale chiamato “azione penale” che appartiene al Re ed è esercitata dal suo procuratore. Ma siccome i procuratori erano tanti quanto erano i giudici i procuratori costituirono un ufficio – il pubblico ministero – (il parquet), gerarchicamente organizzato fino al Ministro di giustizia. E alla funzione di promozione del processo penale si aggiunse, poi, quella di sorvegliare che i sudditi rispettassero le leggi, funzione di controllo che spettava al Re quale capo del potere esecutivo, ma che non poteva essere esercitata dallo stesso stante l’enorme estensione territoriale del Regno. Infine, a queste funzioni del pubblico ministero si venne ad aggiungere una terza, importante funzione, quella di sorvegliare i giudici indipendenti: si diceva che il pubblico ministero era l’occhio del Governo sui giudici. Fu per questa terza funzione che il pubblico ministero venne istituito “presso” i singoli organi giurisdizionali (tribunali e Corti). Montesquieu diceva: “noi oggi abbiamo una legge ammirevole, è quella che vuole che il principe, creato per fare eseguire le leggi, proponga un funzionario in ogni tribunale affinché indaghi a suo nome, tutti reati…”. Si tratta, appunto, del procuratore del Re con le funzioni indicate nelle leggi di ordinamento giudiziario, cioè: promuovere l’azione penale, vegliare alla osservanza delle leggi, vegliare alla pronta e corretta amministrazione della giustizia (oltre ad avere azione diretta per fare eseguire ed osservare le leggi d’ordine pubblico e che interessano i diritti dello Stato).

Questo è l’assetto giudiziario che, sia pure con singole specificità, vige in tutti i Paesi progrediti dell’Occidente. Per il principio della equilibrata divisione del potere, il pubblico ministero – che è, tradizionalmente, un ufficio del potere esecutivo istituito presso i Tribunali e le Corti (di appello e di cassazione) – è separato nettamente dal potere giudiziario, cioè, dai giudici. Tuttavia, nel regime monarchico giudici e pubblici ministeri formavano l’, che era una branca dell’apparato governativo, dipendente dal Ministero di grazia e giustizia: Così è in Francia, ma là all’interno dell’ordine giudiziario vige la separazione ontologica tra giudici e pubblici ministeri, questi ultimi non sono indipendenti come i giudici ma sono gerarchicamente ordinati e diretti dal Ministro di giustizia; in Germania giudici e pubblici ministeri formano due corpi separati.

Da noi, sebbene la Costituzione abbia ripristinato la tradizionale separazione del potere giudiziario da quello esecutivo e, quindi, l’organica separazione del pubblico ministero dal giudice, ancorché abbia prescritto che il pubblico ministero debba avere delle garanzie (che il futuro ordinamento giudiziario deve determinare). Oltre a tutto, la Costituzione all’art. 111, come modificato dalla legge costituzionale n. 2 del novembre 1999, ha previsto che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale.” Da parte sua, il codice di procedura penale del 1988 aveva configurato il pubblico ministero nel ruolo di “parte” del processo, senza confusione alcuna con il ruolo del giudice e senza avere più alcun compito giurisdizionale, che aveva nel codice monarchico (figura ibrida: accusatore ma in parte anche giudice). Per questo nell’immaginario collettivo il pubblico ministero veniva appellato giudice: il giudice Di Pietro, il giudice Caselli e così via.

Se sul piano giuridico costituzionale non v’è commistione tra giudici e pubblici ministeri, permane nell’ordinamento giudiziario (di matrice fascista) l’unione organica di giudici e pubblici ministeri: il vero è che subiamo l’imposizione comunista della “via italiana al pubblico ministero” inaugurata da Togliatti nel 1946. Cioè del pubblico ministero, magistrato unito al giudice: un ritorno al passato, onde siamo una democrazia di facciata, avente al suo interno una super potente magistratura sebbene anticostituzionale, esente da democratici controlli e rendiconti. I riformatori riflettano se aspirano ad una Italia, al passo dei Paesi progrediti.


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