L’anatra è zoppa. La nostra democrazia nacque (ed è vissuta e vive tuttora) con un vizio congenito: il germe dell’antisistema (il Pci o come ora si chiama) che, come un cancro, è penetrato in tutti i gangli dello Stato e nella cultura della società civile, grazie alla strategia gramsciana della conquista delle casematte (cioè delle istituzioni pubbliche e private) attraverso una capillare opera d’indottrinamento politico, quasi porta a porta, mentre gli anticomunisti in tutte altre faccende affaccendati (il potere, soprattutto, il sottobosco) ne subivano l’egemonia.
Morta ingloriosamente l’ideologia leninista-stalinista, è restata la cultura del “socialismo reale”; soprattutto sono restati i metodi leninisti, tra i quali la menzogna, quale strumento di lotta politica, ed è restata l’abitudine a considerare l’avversario come nemico, il non riconoscerne la legittimità (risuona in questi giorni il giudizio tagliente di Bersani: è “agghiacciante” che Berlusconi torni sulla scena politica), quasi a dire che è tornato il mostro.
La penetrazione culturale comunista in importanti casematte ha comportato il formarsi di un antidemocratico ed anticostituzionale blocco di forze in difesa dello status quo, le quali si oppongono con ogni mezzo, anche scorretto e persino illecito, a qualsiasi tentativo riformatore. Ne è restata vittima soprattutto l’Italia, che non può mettersi al passo delle altre democrazie progredite ed efficienti ed è restata, quindi, il lazzaretto dell’occidente.
L’elenco dei guasti prodotti dai comunisti al sistema liberaldemocratico è troppo lungo da poterne qui parlarne o anche soltanto accennarne. Mi limiterò perciò all’anomalo assetto giudiziario, che è l’aspetto più rilevante delle anomalie italiane. Cominciò nel 1946 Palmiro Togliatti – all’epoca Ministro di giustizia nel Governo De Gasperi – che inventò la “via italiana al pubblico ministero”, cioè sottrasse questo ufficio-organo dell’Esecutivo alla direzione ministeriale (art. 39 r.d. 29 maggio 1946, n. 511, sulle guarentigie alla magistratura), configurandolo in modo dissonante da tutti Paesi evoluti ma a somiglianza della “Prokuratura” sovietica, da tutti indipendente fuorché dal partito comunista. Pertanto, il pubblico ministero italiano è restato acefalo, corpo senza testa, privato del naturale centro di raccordo e di responsabilizzazione, è una specie di monade vagante dell’ordinamento giuridico, senza bussola, a orientamento soggettivo variabile, cioè secondo il punto di vista ideologici dei singoli componenti l’Ufficio (i sostituti procuratori della Repubblica).
È grave che dell’operato, questi soggetti assolutamente indipendenti, non rispondano a nessuno, all’interno dell’Ufficio, che è unico, né all’esterno.
Quello di Togliatti fu un vero colpo di mano, perché il decreto sulle guaremtigie, in quanto di natura costituzionale, non era consentito ad un governo provvisorio, abilitato soltanto ad emettere provvedimenti legislativi per situazioni di necessità e di urgenza (non ricorrenti).
Ma la via italiana al pubblico ministero fu concepita da Togliatti (al di là delle ragioni ufficiali) quale strumento necessario al Pci per la costruzione della “via al socialismo” (cioè al comunismo: il “sole dell’avvenire”): invero l’azione penale, monopolio del pubblico ministero, costituisce il più efficace strumento di controllo sociale e, stante l’avvenuta politicizzazione dei pubblici ministeri, il più efficace strumento di condizionamento della politica.
La Costituzione mantenne lo status del pubblico ministero come prefigurato da Togliatti, ma solo transitoriamente, fino a quando, cioè, non fossero chiarite natura e funzioni dell’organo, che all’epoca erano ibride, in quanto comprensive di alcune funzioni giurisdizionali (ad esempio emissione di provvedimenti sulla libertà personale dell’imputato).
Si son dovuti attendere, però, quaranta anni per questo chiarimento: il codice di procedura del 1988 ha configurato il pubblico ministero quale mera “parte”, non più omologo del giudice, ma da questi nettamente distinto e distante. Sennonché la Commissione ministeriale, incaricata di adeguare l’ordinamento giudiziario al nuovo codice di procedura penale, composta in grande maggioranza da magistrati, mantenne, incoerentemente, l’unione organica di giudici e pubblici ministeri, cioè mantenne l’<ordine giudiziario> fascista, invece di istituire, finalmente, l’ordine della magistratura, contemplato dalla Costituzione, composto di soli giudici, soggetti investiti della funzione giurisdizionale (funzione che non ha più il pubblico ministero).
E così al colpo di mano di Togliatti si è aggiunto il colpo di mano dei magistrati componenti la detta Commissione. Si venne, cioè, a stabilire l’assurdo logico e giuridico: la “parte” legata organicamente al “superpartes”, quanto dire l’intima unione di chi deve essere giudicato (in ordine alla fondatezza dell’azione penale esercitata) e chi deve giudicare di tale fondatezza.
Nessuna reazione a questa anomalia, salvo ad auspicare – dai politici e giuristi, persino dagli avvocati – l’attuazione della “separazione delle carriere”; separazione di scarso significato e di scarsa efficacia, atteso che giudici e pubblici ministeri (todos caballeros) restano bensì separati, ma nell’unica casa a formare un solo potere, teso a realizzare l’unione che fa la forza, ma contro il principio della separazione dei poteri statali, che è connotato essenziale del costituzionalismo occidentale, da Locke e Montesquieu, autentici liberali, comune a tutti i Paesi liberaldemocratici dell’Occidente.
Peraltro, la magistratura, essendo configurata dai Costituenti come potere burocratico (cioè non elettivo), è esente da rendiconti al popolo sovrano nel cui nome lo esercita, ed essendo assolutamente indipendente da ogni altro potere è altresì esente da qualsivoglia controllo: in definitiva la magistratura attuale è un potere super con licenza di “rivoltare l’Italia come un calzino”, secondo una colorita metafora di Piercamillo Davigo, uno dei componenti il noto pool milanese, autore della tanto decantata (ma falsa) rivoluzione giudiziaria.
A difesa dell’attuale assetto giudiziario è da sempre (da Togliatti in poi) schierato il partito comunista, il che lascia emergere il tacito accordo, di reciproca assistenza: io magistrato do una cosa a te, tu comunista dai una cosa a me, io magistrato ti copro sul lato giudiziario ed elimino i tuoi avversari, tu comunista garantisci il mio status (l’abnorme potere).
Chi non ha capito questo intreccio di interessi e questo tendere delle toghe alla costruzione di un proprio potere politico (ed alludo al centro destra: Berlusconi ed il su entourage) non ha capito la grande anomalia che impedisce la governance, quand’anche stabilita dal voto, e impedisce all’Italia di diventare un Paese normale, al passo dei Paesi evoluti.
Nessuno dubita che l’assetto giudiziario occupa un posto centrale in una società democratica e liberale, quale presidio delle libertà e dei diritti fondamentali delle persone, anche contro il potere, come ha più volte sottolineato la Corte europea di Strasburgo. Noi nel 1999 abbiamo immessi in Costituzione la mirabile sintesi della legalità processuale, già enunciata dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma gli enunciati essenziali (terzietà del giudice e parità tra accusa e difesa) sono restati lettera morta, permanendo tuttora la contiguità a livello organico tra il giudice e l’organo dell’accusa e quindi la supremazia di questi sulla difesa (come si può ritenere pari alla difesa il pubblico ministero contiguo al giudice?).
Cionondimeno, una vera riforma dell’assetto giudiziario è ineludibile, ancorché non piaccia ai magistrati (che difendono ad oltranza il loro illegittimo superpotere), i quali però mostrano di ignorare così la Costituzione laddove questa prescrive che “le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge” (art. 108): è il potere politico, espressione della sovranità popolare, competente a stabilire l’ordinamento di giudici e di pubblici ministeri, non il Csm e, tanto meno, l’associazione dei magistrati.
E la riforma dell’assetto giudiziario è ineludibile perché l’attuale magistratura politicizzata, ma irresponsabile e incontrollabile, non consente di governare: l’esperienza di questi ultimi anni esime dal dimostrarlo. Basta l’iscrizione nel registro degli indagati di uno o più parlamentari (o, addirittura, il mero preannuncio di essa) e con il concorso della grancassa mediatica, asservita ai pubblici ministeri e quindi spesso faziosa, nonché dello scarsissimo tasso di cultura giudiziaria che connota ancora buona parte dell’opinione pubblica, a portare alla gogna uomini politici, con conseguente, possibile incrinatura della maggioranza che sostiene il Governo (ne fu esempio il Governo Prodi). E’ quello che i Padri costituenti avevano inteso evitare con l’art. 68 della Costituzione che, improvvidamente, un Parlamento intimorito soppresse nel 1993.
Pertanto, è dovere della politica inserire nella sua agenda il disegno legislativo di riportare la magistratura sui binari della legalità costituzionale e in attuazione di fondamentali principi della democrazia: divisione dei poteri e responsabilità per l’esercizio delle funzioni.
Ma, prima ancora di porre mano ad una nuova disciplina dell’assetto giudiziario, occorre una seria operazione culturale per far capire all’opinione pubblica disinformata quale è il male oscuro della nostra democrazia, di cui sopra ho fatto cenno: occorre, cioè, svelare l’inganno perpetrato da comunisti e magistrati in danno del popolo sovrano.
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