Non sono un essere sociale. Non bevo. Non amo le chiacchiere, figuriamoci quelle da bar. Conversazioni casuali, nate tra conoscenti, con persone che difficilmente si inviterebbero a casa propria. Non amici, ma semplici compagni di lavoro o abituali passeggeri dello stesso autobus, con i quali si discute superficialmente di calcio. E che cos’è il calcio? Da ragazzo ho giocato anch’io, perché tutti lo giocavano, ma non ci ho mai capito nulla. Preferivo correre. Correre sulle lunghe distanze. Non c’era bisogno di parlare. Si stava soli con i propri pensieri e la propria fatica. Senza fastidiosi strilli e urla: “tira”, “passa”, “devi stare lì”…
Il calcio giocato non mi appassiona, tanto meno quello parlato. È senza senso. Non si può discutere per ore, magari arrabbiandosi di episodi frutto del caso. È stolido ed inutile. E al bar, di calcio si parla. Principalmente. Quindi non ci vado. Mai.
Per di più, essendo un topo da Ced, muovendomi molto poco, spesso senza nemmeno il bisogno di fare il tragitto casa/lavoro, perché il lavoro mi arriva a casa in sessione ssh, tramite Adsl, di occasioni di entrare in un bar ve ne sono proprio poche. Ore e ore passate su di un terminale a controllare le ridondanze di un raid o a spulciare tra i file di log, per trovare errori o anomalie. La mia pausa è un caffè, non preso al bar, ma fatto con la caffettiera.
Poi la vita, a volte, cambia. Da libero professionista si possono scegliere quali lavori prendere e quali scartare, non sempre, ma a volte capita. E a volte capita di cambiare abitudini radicalmente. Così, recentemente, sono uscito dalla mia tana di bit – almeno parzialmente – per occuparmi anche d’altro. E sono entrato nei bar.
Non sono come me li ricordavo, sono cambiati. Ovunque invasi da macchinette mangia-soldi. Non ce n’è uno che non ne abbia qualcuna. E sono sempre in funzione. Quelli che hanno anche la ricevitoria e i tabacchi vendono un pacchetto di sigarette e un “gratta e vinci”, un caffè e un “turista per sempre”. Il resto, le monete da uno o due euro, finiscono quasi sistematicamente nelle slot-machines. Due colpi al pulsante e il cliente esce. Quando va bene.
* * *
Il bar era uno sporco locale di periferia. Il barista, una persona rude, con la barba lunga, sembrava infastidito d’ogni cosa, persino dei clienti che chiedevano di consumare. Lei entrò e chiese una birra. Difficile darle un’età, presumibilmente più di trenta e meno di quaranta. Bionda artificiale, con un’ampia riga nera nei capelli ad indicare il troppo tempo trascorso dall’ultima tinta. Non grassa, ma gonfia, con uno stomaco prominente che le sorreggeva l’ampio seno. La seguiva, quasi fosse un cucciolo di cane, un bambino di circa 6 anni d’età. Lei, senza nemmeno guardarlo, gli diceva di stare buono e fermo. Si avvicinò ad una slot ed iniziò a giocare. Giocava concentrata, su due macchinette contemporaneamente, nemmeno raccoglieva le monete che, di tanto in tanto, le slot restituivano.
Quando finì quelle che aveva in una specie di vasetto di plastica per crauti, iniziò ad usare anche quelle vinte. Infilava monete e premeva i tasti, senza nemmeno guardare il monitor. Mentre giocava su una già guardava l’altra. Cambiò svariate volte banconote per il corrispondente in metallo. Il bambino, annoiato, era uscito dal locale, attratto da qualcosa all’esterno. Lei non se ne accorse nemmeno. Notò la sua assenza solo quando ordinò l’ennesima birra. Uscì, lo prese per un braccio e lo riportò dentro: “Non devi uscire, hai capito? Stai qui. Fermo e buono”. Riprese a giocare.
Non sa cosa io stia facendo con antenne, cavi e strane scatolette, ma comprende che è qualcosa che ha a che fare con quelle macchinette. E questo le basta per iniziare ad attaccar bottone. Mi racconta che adesso è parecchio che perde, ma che per ben due volte ha vinto cifre importanti. Una volta 300 e un’altra addirittura 700 euro. Non so se sia vero, non mi pongo il problema. La mia unica ansia è per quel bimbo che scorrazza incontrollato per il bar. Cerco di spiegarle che non si può vincere: si chiama “speranza matematica”, sbilanciata a sfavore di chi gioca, decisa da un algoritmo. E se gioca continuativamente non ha alcuna possibilità di spuntarla, può solo perdere. Lei risponde con un grugnito di disappunto e continua a giocare.
Con il passare del tempo altri avventori si avvicinano alle macchinette e un poco alla volta il rumore diventa ubriacante. Io ormai ho finito, ho fatto il mio sporco lavoro: ho georeferenziato e connesso un’altra slot all’Ufficio delle Entrate, affinché sappia – in tempo reale e con saldi quotidiani – quanti denari quella singola macchinetta gli ha procurato. Sono valanghe di euro, cifre colossali, un sistema di tassazione improprio ed occulto per poveri allocchi disperati. Altri soldi fagocitati dall’apparato. A cosa sono destinati? Quali servizi ritornano al cittadino? Nessuno lo sa. Finiscono nel pozzo senza fondo statale.
Uno Stato biscazziere, a questo ci siamo ridotti, ci hanno ridotto. Senza l’elitaria eleganza dei casinò, portando il gioco in ogni angolo del Paese, rendendolo disponibile per tutti, per una colossale rapina di massa. Senza preoccuparsi di rovinare intere famiglie pur di continuare a sopravvivere a se stesso.
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