SPERANZA

I bancomat distributori di bontà non esistono

ʺDove tutto è lindo e ordinato, regnano in segreto i Fecaliʺ (Adorno, Minima Moralia.)

La Germania non è grande per la sua birra, le sue salcicce, la sua Merkel. Le cose per le quali lo è sono ben altre e io, sensibile al ridicolo, non tentero’ certo di farne una lista che solo una persona colta potrebbe forse stendere. Ma ora mi interessa la distinzione kantiana, in fatto di moralità, tra imperativo categorico e imperativo ipotetico, che adoperero’ a modo mio, per un tema circoscritto ma importante: chiarirmi il realizzarsi del comportamento moralmente positivo nella società, ed in particolare in una società democratica.

Osservazione previa: per suscitare comportamenti moralmente buoni, atti a conseguire scopi positivi, le ʺstruttureʺ legali che si usa predisporre servono a molto poco, talora addirittura a nulla. Non è dato suscitare la volontà buona per decreto legge, cosi’ come non è dato dipingere un bel quadro per ʺcostruzione fisicaʺ. Non si puo’ statuire: ʺDal mezzogiorno di domani siate persone di fegato e per bene; multa di tot euro ai trasgressoriʺ. Tutte le strutture, itinera, leggi e altro che si puo’ escogitare per avviare comportamenti eticamente positivi, non sono che precondizioni che possono o non possono funzionare. L’atto morale è inevitabilmente una decisione del singolo libera, personale, dipendente solo dal soggetto come tutte le cose ʺsentiteʺ e le più volte ʺcoraggioseʺ.

Cio’ equivale a dire che in materia etica non è dato legiferare. C’è salto di contenuto: è come se si volesse fare un piatto di gnocchi con un sacchetto di ciottoli. La prova di cio’ è nel fatto che ogni istituzione di diritto (ed ogni legge) deve inevitabilmente corredarsi d’un gioco di divieti e di ricompense. Ma punizioni e ricompense con l’etica non hanno nulla da spartire.

Da ragazzo, il buon prete di Bagnoli del Trigno, don Filippo Fracassi, che faceva bisettimanalmente dodici chilometri in bicicletta per impartirmi lezioni di filosofia a domicilio (si era in tempo di guerra), mi spiegava la faccenda come segue: ʺSe i tuoi genitori ti dicono: fa’ la tale cosa buona perché è bene farla, ti stanno suggerendo una legge morale, ovvero una cosa che vale di per se stessa, che è ʺperché síʺ. Se invece ti dicono: se farai questa cosa, ti daremo in premio un sacchetto di caramelle, essi invece ti stanno introducendo nel mondo delle prescrizioni e dei codici, che con l’etica non ha davvero nulla da spartireʺ.

Quanto detto illustra anche la natura degli ordinamenti statuali tutti: ad esempio anche della democrazia. Essi sono insiemi di leggi (si spera favorevoli alla soddisfacente condotta del singolo), non di decisioni morali. Certo, in una società, puo’ vigere un ʺcostumeʺ favorevole a comportamenti morali. E’ questo il cosiddetto ʺdiritto non scrittoʺ (o consuetudinario), ma neppure esso puo’ sostituire l’atto morale perché, ripeto, quest’ultimo corrisponde sempre ad una intima ʺdecisioneʺ suscitata nel singolo dal singolo caso.

Nulla di rigidamente precostituito si dà nei fatti morali. Ad esempio, asserire che la ʺbuonaʺ democrazia puo’ sorgere solo in comunità umane di dimensioni ridotte (le poleis) è asserto talora vero ma, poiché riferito ad una empirica ʺcostruzione fisicaʺ, vero solo in via approssimativa: si paragoni la popolosa democratica Inghilterra con uno qualsiasi dei nostri minuscoli semideserti, tetri villaggi, sempre e solo animati da gretti interessi personali, o da belluine nostalgie totalitarie (=comunismo, fascismo). Qui valga anche l’esempio della famiglia: dove solitamente neppure una dimensione ridotta al minimo basta ad instaurare uno spirito democratico, anzi, solitamente vi favorisce la ʺautocraziaʺ d’uno dei genitori (olim, il padre).

Cinquant’anni fa era molto letto Bruno Bettelheim (The informed heart): psicologo ed educatore che spiegava la psicologia totalitaria come segue: a realizzare il totalitarismo basta un solo despota, il resto della popolazione si ʺmussulmanizzaʺ per paura, costruendo spontaneamente la ʺpiramide totalitariaʺ: – obbedienza a chi sta più in alto, prepotenza verso chi sta più in basso -. Fu questo lo schema strutturale della società nazista, che trovo’ realizzazione perfetta nei campi di concentramento: dove mille e mille disperati obbedivano ad un solo assassino ed al suo cercine di muselmänner.

Puo’ affermarsi che, se la democrazia si produce più facilmente in società (città, paesi, nazioni) di dimensioni ridotte, cio’ è perché in esse prevalgono le opinioni del ʺpopoloʺ, per cosi’ dire ʺcomandanoʺ i singoli, che in una reale o virtuale agorà ʺconversanoʺ (=consentono, ma anche dissentono) intorno a quell’oggetto che, in tempi meno retorici dei nostri, si chiamava con semplicità patria. Ma, anche qui, una democrazia ʺbuonaʺ si ha solo se sono buoni i ʺconversatoriʺ.

Le due condizioni necessarie alla ʺbuonaʺ democrazia: la discussione, e ʺla volontà buonaʺ, ovvero disinteressata, dei partecipanti, sono autentiche se sono spontanee, esterne ed estranee a qualsiasi legge. Ragion per cui neppure la democrazia, di per sé, è necessariamente cosa buona. La prova: oggi, con la litania e la panacea della ʺdemocraziaʺ, sono riusciti solo a romperci i timpani e gli stivali, mettendo talora in piedi realtà statuali che con la democrazia hanno ben poco da vedere. Dove sta scritto che la democrazia è ipso facto ʺbuonaʺ? E che significa ʺesportare la democraziaʺ? Avete mai visto esportare il dover compiere una buona azione? Ma dove, ma quando? D’una buona azione avrete forse visto esportare gli effetti, ma questo è tutt’altro paio di maniche.

Nei fatti, la discussione di Kant (Rechtslehre) intorno alla differenza tra morale e diritto è sovradeterminata: la formula giusta ed esauriente egli l’ha data quando afferma che il ʺdover fareʺ puo’ avere due modalità del tutto diverse: è un imperativo categorico se basta a se stesso in quanto rispondente alla norma etica (ʺagisci in modo che la massima della tua volontà possa valere come norma universaleʺ); è ipotetico se, per realizzarsi, si avvale invece della condizione del vantaggio (ʺdo ut desʺ) di chi ottempera. E poi, al centro del bivio c’è sempre un unico soggetto. La morale è una pièce munita di un solo attore.

Il compianto Rosario Assunto, uno dei nostri più autentici pensatori, diceva a modo suo la stessa cosa: il bene, il bello, sono valori autotelici. Ovvero: rispondono al solo codice costituito dall’esser se stessi, perché sono fine a se stessi, punto e basta.

Le dottrine politiche, anche le più benintenzionate, suggeriscono un insieme di leggi, e per cio’ stesso seguono necessariamente l’imperativo ipotetico, frutto del gioco di ricompense o punizioni, che, come abbiamo detto, è indifferente alla volontà buona. Io posso, infatti, promulgare una legge perversa, obbligatoria e valida a tutti gli effetti. Penso che anche il Diavolo deve avere un suo tribunale. Peggio: avrà forse a disposizione una sua impeccabile ʺdemocraziaʺ, perché all’Inferno, per definizione, tutti sono concordemente cattivi. Qui si nasconde l’intima contraddizione etica insita nel concetto stesso di ʺdirittoʺ. Infatti: non hanno forse un codice, anche i nostri magistrati!?

Quante volte abbiamo assistito impotenti al dramma dell’instaurarsi di gravi ingiustizie e rivoltanti cattiverie tra attori perfettamente a posto quanto a leggi e pandette? Anzi, uno degli accorgimenti più diabolici dei malvagi e dei malintenzionati è quello di malfare con l’aiuto della legge. Romanzi e tragedie, shakespeariane e non, non narrano altro. Lo ʺspirito farisaicoʺ è proprio questo: rispettare la lettera per sterminare lo spirito. Gesù Cristo fu crocifisso per legge.

Cio’ che abbiamo detto a proposito della democrazia è esatto, ma al giorno d’oggi è astratto: dove trovare un insieme di uomini che conversino tutti con volontà buona (=disinteressata) intorno alla patria?

Nei fatti, se, quando e dove alcuni uomini conversano animati da amor di patria -, occorrerebbe che tutti gli altri tacessero. Oggi (clima massmediatico, etc.) succede l’esatto contrario: tutti parlano di come ordinare la polis, ma nessuno ne ha poi veramente l’intenzione. Erano forse più… democratici i tempi in cui il popolo, formalmente lontano dalle questioni inerenti al reggimento della polis, si occupava d’altro -, lasciando la discussione politica a chi ne avesse realmente il ʺdisinteressato interesseʺ. Paradossalmente, risulterebbe da cio’ che la (buona) democrazia fiorisce meglio dove se ne prendono cura pochi (la sola koinonía agathón), e che il clima odierno, partitico-elettoralistico, è il contrario di quello adatto al fiorire della (buona) democrazia. Oggi pontificano stentoreamente, per vantaggio personale o di partito, coloro che della polis si infischiano altamente; invece, quelli che avvertono un vero amore per la patria, spesso tacciono intimiditi. Ma stop, non voglio dire (veridiche) eresie.

Insomma, in mancanza di un serio interesse etico, anche la discussione diventa un disvalore, e la agorà si riduce ad un banale luogo d’incontri meramente pratici, come sarebbe un mercato di vacche. E poi, quando la ʺgenteʺ si occupa d’un argomento soltanto in senso conflittuale, cio’ è proprio quel che ci vuole per non chiarire i problemi relativi all’argomento. Non v’è nulla di meglio dell’ideologismo per non capire un bel niente.

Si usa definire alla svelta ʺsanaʺ una situazione politica in cui il singolo si senta non un isolato ʺioʺ, ma parte di un ʺnoiʺ. Chiacchiere anche queste: cio’ non è affatto condizione sufficiente! Occorre anche e sempre l’ispirazione morale, la bontà dello scopo. Altrimenti basterebbero la Mafia, o la attuale Magistratura, che sono e si sentono dei ʺnoiʺ per istituzione: il ʺnoiʺ c’è – e come se c’è! – ma voi li vedete, i buoni risultati che dovrebbero seguirne?

Insomma, ovunque regnino fatti umani, non vi sono ʺeffetti automaticiʺ, né predisposte ʺstruttureʺ benefiche che tengano. E’ vero che, oltre una certa ʺmassa criticaʺ, la società tende verso una perversa ʺmiliarizzazioneʺ (Tocqueville), e d’altra parte la falsa compattezza etica generata da una ideologia è tutt’altro che democrazia. Ma anche i famosi corpi intermedi sono alla fin fine ʺcostruzioni fisicheʺ; posson essere di tutto, nel bene e nel male: anche dannose ʺcorporazioniʺ, egoistici ʺordiniʺ, perverse lobbies.

Stando cosi’ le cose, che fare? Si è già parlato del fatto che la verità, e i valori connessi (vero, bene, bello), si trasmettono non per ingiunzione, e tantomeno per persuasione ragionata, ma bensi’ per intuizione, per obiettiva maturazione del sentire: in breve, ʺper contagioʺ. E l’instaurarsi di quest’ultimo è certo facilitato dal prerequisito del costume: un comportamento di vita degno, un esempio di costruttiva buona volontà, valgono più d’ogni indottrinamento. Ma dire ʺcostumeʺ vuol dire pregressa attività educativa, lenta maturazione. Percorsi lenti e difficili, e poi il costume stesso puo’ corrompersi: traviamento, questo, che invece si produce in modo fin troppo rapido. Si dice che per fabbricare un gentiluomo occorrono tre generazioni? Forse; ma per tirar fuori un manigoldo bastano cinque minuti.

A questo punto, l’orizzonte delle possibili vie d’uscita sembra farsi oscuro. Ma resta ancora una speranza: esiste il dispositivo veramente misterioso della rapida ʺconversioneʺ. Buon ultimo, l’Assoluto (il Bene) infine arriva, come dice Hegel. L’instinct moral, di cui tanto discute Rousseau nella sua quarta ʺpasseggiata solitariaʺ, vivaddio esiste. In realtà, ʺcontagioʺ significa proprio questo. Si sperimenta a volte un immediato mutamento nell’ispirazione d’una collettività, nei suoi modi di sentire e di reagire, che fanno sospettare l’esistenza di realtà sociopsicologiche latenti, che d’un tratto si fanno beneficamente vive alla superficie della coscienza collettiva. E’ come se il livello di qualità e di maturazione dei singoli fosse solitamente come imbavagliato e occultato da un collettivo incantesimo malefico. Lo dicevano già i Romani: senatores boni viri, senatus mala bestia. E lo ripeteva a modo suo Proust: metti insieme otto o dieci Premi Nobel, avrai un bel sinedrio di autentici fessi.

Non voglio certo asserire che noi Italiani siamo tutti ʺsenatoriʺ in pectore o Premi Nobel in nuce: lungi da cio’! Ma in situazioni di emergenza, ecco che si produce lo strano fenomeno qui sopra accennato: gli animi generosi si moltiplicano, gli ottimisti del fare prevalgono sui consueti pessimisti del pensare, spuntano come funghi persone degne di stima e di incondizionata ammirazione. Io guardo con meraviglia mista a rispetto a quel che sta accadendo nelle città e nei paesi dei terremotati.

Forse il reale ʺstato di fattoʺ dell’etica collettiva è in gran parte sommerso, e tutti noi valiamo più di quanto sembra. Ho visto persone che hanno perso tutto sperare ancora, al punto di prestare aiuto a chi ha più bisogno di loro. Ho sentito amministratori di città e di villaggi dire che per loro una chiesa crollata, un monumento sbriciolato, un affresco semicancellato, sono ferite gravissime alle quali bisogna in ogni possibile modo e immediatamente por rimedio, per restituire identità e dunque vera vita alle piazze, alle vie, ai vicoli colpiti. Ho ammirato imprenditori che, innanzi allo sfascio dei loro capannoni e dei manufatti in essi contenuti, hanno usato parole di speranza e sono riusciti ancora a sorridere, o almeno a tirarsi su le maniche sospirando.

Certo, c’è stata la terribile realtà dei suicidi. Mi sono domandato fremendo se, gravemente colpito, non sarei anch’io entrato a far parte della tristissima lista. Non so. Ho concluso che per fortuna c’è qui tra noi molta, ma molta gente migliore di me. Mi rendo conto che questa constatazione finale puo’ risultare comica: ma la faccio lo stesso. E’ una constatazione che mi ha riempito di speranza.

Cosi’, dopo aver ammirato il detto di Wiesengrund Adorno da me qui citato in esergo, debbo ora aggiungere un motto mio, che trovo anch’esso ammirevole benché sia di significato opposto (ma, si sa, le verità vere sono quasi sempre contraddittorie):

ʺDove tutto è disordine, lerciume e malvolere, regnano in segreto l’Amore, la Solidarietà, la Speranzaʺ.


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