PATOLOGIE DEL PROCESSO

Il processo sorge solo quando il pubblico ministero esercita l’azione penale, solo quando, cioè, si realizza il contraddittorio pubblico tra accusa e difesa, anche per l’acquisizione delle prove, davanti a un giudice terzo, il cui compito è di vagliare la fondatezza delle loro posizioni, come prevede anche la Costituzione; la quale detta le linee essenziali del giusto processo: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”.

Consegue che non è processo la “indagine preliminare” del pubblico ministero, perché del processo mancano i connotati essenziali: il contraddittorio, ad armi pari, tra accusa e difesa avanti ad un giudice effettivamente terzo. Non risponde a questo schema sia perché il giudice della indagine preliminare (il Gip), interviene solo eventualmente per autorizzare alcune attività del pubblico ministero (ad esempio, l’intercettazione delle comunicazioni), e sia perché manca il contraddittorio. Inoltre, a differenza del processo, nell’indagine preliminare normalmente non si formano o acquisiscono prove, eccezion fatta del caso in cui sussista il pericolo che possa disperdersi la prova: allora si fa luogo all’acquisizione della prova in contraddittorio (si chiama “incidente probatorio”).

Ma a questa indagine fisiologica, in quanto fase preliminare al processo, è subentrata la patologia, nel senso che l’indagine del pubblico ministero – peraltro supportata da circoli mediatici che fungono da cassa di risonanza delle di lui iniziative, spesso mosse da motivi politici – è diventata il “processo”, epperò, in segrete stanze, senza contraddittorio e senza giudice effettivamente terzo. Insomma si è condannati alla gogna prima del processo, per altro da chi è controparte, con violazione dei basilari principi della difesa e della presunzione di non colpevolezza. La iscrizione della persona nel registro degli indagati (che dovrebbe essere una garanzia) suona, invece, come pre-condanna. E non va sottaciuto che, essendo irrealizzabile il principio di obbligatorietà dell’azione penale, il pubblico ministero sceglie i reati da perseguire e soprattutto sceglie preventivamente gli indagati.

E’, questa, una gravissima degenerazione della giustizia penale, ma non è la sola, perché altri aspetti ne segnalano la patologia. Viene per prima in considerazione il grosso problema della libertà personale dell’indagato/imputato. Ho già detto, in altro scritto, che nel modello accusatorio (il più garantistico) l’imputato deve essere libero e non in catene. E’ vero che la Costituzione ammette la carcerazione preventiva, ma è anche vero che essa deve armonizzarsi con altri principi (quelli appena detti) per modo che la carcerazione sia misura eccezionale, per ragioni plausibili.

In passato la carcerazione preventiva veniva disposta soprattutto per ottenere la confessione dell’imputato ovvero, comunque, per avere la sua collaborazione: una scorciatoia per giungere alla definizione del processo. La carcerazione preventiva era, cioè, la pietra angolare del processo inquisitorio, una forma, sebbene meno barbara della tortura, che aveva imperversato per secoli e che aveva macchiato la coscienza degli uomini. Ne è testimonianza storica la “colonna infame” sorta sul posto ove era l’abitazione, rasa al suolo, di Alessandro Mora che, assieme a Guglielmo Piazza, era stato condannato a morte, reo confesso sotto tortura, sebbene innocente, di essere “untore” durante la peste a Milano del 1630. Francesco Carrara, grande penalista del diciottesimo secolo, definiva la carcerazione preventiva la vergogna della giustizia penale, ancorché in alcuni casi necessaria.

Il nuovo codice di procedura penale (1988) aveva reagito alla prassi distorta, stabilendo che essa potesse essere disposta solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e solo in presenza di tassative, specifiche esigenze cautelari. Ma, si sa, le riforme camminano sulle gambe degli uomini e da noi manca una adeguata cultura dei diritti dell’uomo, quand’anche sotto accusa penale: noi siamo ancora intrisi della secolare cultura inquisitoria e intendiamo il processo come strumento di lotta, contro qualcosa o contro qualcuno, anziché come strumento di garanzia, che è la nota peculiare della giurisdizione. Tolleriamo che il pubblico ministero faccia il bello ed il cattivo tempo contro le persone, senza pagarne mai le conseguenze negative. Clamorosa la prassi instaurata dalla cosiddetta rivoluzione delle toghe milanesi, teorizzata dal pur culturalmente attrezzato Procuratore Francesco Saverio Borrelli: “noi non incarceriamo la gente per farla parlare, la scarceriamo dopo che ha parlato” ! (il Giornale 4.6.1993). Eppure “hic sunt leones”!

Richiamata dall’eco di quegli avvenimenti e dalla notorietà del sostituto procuratore Antonio Di Pietro – che si avviava a diventare “il più amato dagli italiani” (potenza dei media!) – giunse dalla Francia una delegazione della Federazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo, per rendesi conto da vicino del fenomeno: nel Rapporto – pubblicato dalla rivista “Parlamento” nel dicembre 1992, vennero bollati i metodi engagé dei magistrati rivoluzionari, soprattutto per l’abuso della carcerazione preventiva, che comportava la violazione dei diritti dell’uomo e sollevava il delicato problema della confessione come mezzo di prova giudiziaria. Ed ammoniva che l’inchiesta, per il modo in cui veniva svolgendosi, comportava il pericolo di una preoccupante incrinatura nell’ordinamento democratico.

Ma prevalse il giustizialismo più accanito, con i ben noti esiti drammatici per il sistema politico, oltre che per i diritti fondamentali delle persone, coinvolte disinvoltamente nell’inchiesta: basti citare Cagliari, Gardini, Moroni e tanti altri, martiri della giustizia neogiacobina alla Di Pietro.

E la musica non sembra sia cambiata molto, perché abbiamo magistrati irresponsabili che hanno licenza di sconvolgere il Paese, anche per motivi che esulano dalla sfera propria della giustizia.

Un’altra scorciatoia che imboccano sovente i pubblici ministeri è l’uso dei cosiddetti pentiti (rectius: collaboratori di giustizia, come ufficialmente vengono chiamati), remunerati dallo Stato, con denaro o con forti sconti di pena, spesso rasentano la non punibilità se con le loro “rivelazioni” possono incastrare personaggi noti, massimamente del mondo politico.

Prima dei pentiti esistevano, esistono ancora, gli informatori di polizia, i quali fornivano notizie utili alle indagini, in cambio di qualche sommetta prelevata dal fondo, stanziato ad hoc, dal Ministero degli Affari Interni, ovvero in cambio di chiudere un occhio sui piccoli illeciti di cui i confidenti si macchiavano. I nomi di questi informatori dovevano restare però segreti: le “soffiate” servivano ad orientare le indagini di polizia e non potevano costituire fonti di prova.

Oggi, invece, i collaboratori di giustizia (i falsi pentiti) sono testimoni palesi, ma non sempre affidabili, stante il loro curriculum criminale. La giurisprudenza esige che le dichiarazioni di costoro debbano essere riscontrate, ma poi finisce col ritenere valido il riscontro se altri pentiti riferiscono le stesse cose: si finge di non sapere che questa specie di “testimoni di Stato” si scambiano i pareri e a volte persino i verbali delle deposizioni, anche se sono detenuti. Tutto, poi, è aggravato dall’essersi i magistrati procurato una specie di passepartout: l’associazione esterna ad associazione mafiosa, capace di consentire l’apertura a piacimento di indagini e facili incriminazioni: è sufficiente che il pentito dica che il tizio era stato invitato ad una festa in casa del potente mafioso e scattano le manette.

Naturalmente questa mia tesi è provocatoria, al fine di gettare l’allarme per una possibile degenerazione del processo penale e per l’esposizione a pericolo di qualsiasi persona.

Un altro, non ultimo, aspetto degenerativo della nostra giustizia penale è costituito dall’abuso delle intercettazioni delle comunicazioni e, oltre a tutto, dalla illecita divulgazioni dei contenuti. Anche qui attività investigativa del pubblico ministero è né controllabile né responsabile, ancorché l’intercettazione debba essere autorizzata, con decreto motivato, dal giudice, cioè da un suo collega. Chi ha un po’ di esperienza di come funziona la cosa sa bene che l’autorizzazione non si nega a nessuno, come è desumibile dall’abuso che da noi si fa di questo strumento investigativo: con spreco di denaro dei contribuenti e, oltre a tutto, con scarsi risultati.

Il difetto sta nel manico, cioè, nello stravolgimento dello scopo della intercettazione, che per gli zelanti pubblici ministeri consiste nell’incastrare l’indagato. Bisogna premettere che si tratta di materia che gravita nelle sfera dei diritti inviolabili della persona, come recita l’art. 15 della Costituzione ed anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo la quale assegna alla intercettazione il connotato di una misura necessaria per la sicurezza dello Stato, l’ordine pubblico e la prevenzione dei reati, cioè prevenire e non scoprire la commissione di reati (art.8).

L’attuale disciplina della intercettazione (che si vorrebbe cambiare) prevede che non solo devono sussistere gravi indizi di reato ma che sia assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini. Qui tralascio dal considerare la prassi distorsiva (vi si ricorre anche per scoprire se il tizio ha commesso reati: insomma si origlia anche quando non è assolutamente legittimo), sollevo due questioni di enorme rilevanza e tuttavia non emergono dal dibattito in corso: se l’ordinamento giuridico ha accolto il principio secondo cui nessuno può essere costretto a deporre contro se stesso (l’indagato può avvalersi della facoltà di non rispondere all’interrogatorio, l’imputato può restare contumace), ebbene questo antico principio di civiltà giuridica viene eluso fraudolentemente tramite l’intercettazione delle conversazioni telefoniche e ambientali dell’indagato. Seconda importante questione: se viene intercettata una persona non indagata e se ne assume efficacia di prova si viola la norma secondo cui il testimone deve essere avvertito della responsabilità che assume con le sue dichiarazioni. In altri termini la intercettazione non serve a procurare prove, ma ad agevolare (quando non se ne può fare a meno, come recita la norma) il compito al pubblico ministero che deve stabilire se vi sono ragioni per promuovere il processo. Il secondo aspetto negativo dell’attuale prassi nella intercettazioni delle comunicazioni tra privati (ma si è giunti persino ad origliare nei confronti di un presidente del Consiglio dei Ministri) è la divulgazione delle risultanze delle conversazioni intercettate ancora coperte dal segreto investigativo. Segreto che è non solo nell’interesse della indagine ma anche della persona in essa coinvolta. Oggi assistiamo che, ad onta del segreto istruttorio, sono sciorinati dai media intercettazioni quand’anche riguardanti persone estranee all’indagine e prima che venga fatta la prescritta trascrizione, mediante apposita perizia, che ne rende certi ed intelligibili i contenuti. Non tutti sanno che le intercettazioni sono versate su nastri magnetici, che, appunto, devono essere periziate in contraddittorio con la difesa: prima di questo momento i contenuti sono riassunti in un “brogliaccio” che è la interpretazione soggettiva di chi ha proceduto alla intercettazione, spesso non coincidente con i dati reali. Insomma anche per questo strumento la prassi è anomala e difficilmente ovviabile, stante da una parte la resistenza ad oltranza dei pubblici ministeri che non vogliono limiti e controlli alla loro attività di polizia, dall’altra, l’incapacità, la mancanza di coraggio e la noncuranza dell’interesse generale di questa classe politica, che non riesce a compiere un suo eminente dovere di scelte politiche necessaria a questa sgangherata democrazia. Sia ben chiaro non nego il controllo di legalità, che compete al pubblico ministero quale organo del potere esecutivo, mi chiedo però chi controlla il controllore? Ma, mi sia consentito aggiungere: un piatto conformismo non riesce a vedere quello che un bimbo – come nella fiaba “I vestiti nuovi dell’imperatore” di Hans Andersen riesce a vedere, cioè il re è nudo.


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Una risposta a “PATOLOGIE DEL PROCESSO”

  1. Avatar Carla Vieri

    Mentre stavo leggendo ,mi sono detta,in questo carrozzone (giustizia)chi è il controllore?Ci dovrebbe essere sopra a tutti anche dell’ordine supremo della magistratura,il capo dello stato.A questo punto come ho sempre pensato il presidente ha fatto ,o meglio ha proseguito quello che Togliatti istaurò,cioè una magistratura da strumentalizzare dal capo dello stato e di tutta la sinistra.Sia con mani pulite,sia in questi 20 anni di governo Berlusconi, ne abbiamo avuto ampiamente la conferma.

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