ANM NUOVA, INGANNO VECCHIO

La settimana scorsa si è tenuta l’elezione della giunta (36 membri) dell’Associazione nazionale dei magistrati che, come è risaputo, si divide in “correnti”, rappresentative di diversi orientamenti ideologici, ma è unita nella difesa del potere dell’intera corporazione togata. La nuova giunta risulta composta da “Unità per la Costituzione” (12 seggi), da ”Magistratura democratica” – che però ha formato cartello con “Movimento per la giustizia art. 3” – (12 seggi), da “Magistratura indipendente” (11 seggi), infine, da “Proposta B”, che è una lista indipendente, “anticorrenti” (1 seggio): il presidente ed il segretario saranno eletti dalla giunta il prossimo 24 marzo ma è già sorta al riguardo aspra contesa tra le correnti.

Secondo alcuni primi commenti, l’associazione si sarebbe spostata su posizioni di centro, cioè su quella parte della magistratura il cui slogan è “meno politica e più sindacato”: in altri termini – si dice – i magistrati oggi sono per il confronto con le forze politiche e le istituzioni, lontani dalla bellicosa posizione della vecchia giunta e tuttavia fermi sui principi e valori costituzionali.
La differenza, dunque, tra il prima e il dopo, sta nel metodo, non nei fini, che vengono definiti “non negoziabili”: vale a dire, difesa ad oltranza dell’attuale assetto giudiziario, ritenuto dalla corporazione dei magistrati e non solo da essa conforme a Costituzione.

Per gli osservatori degli “arcana imperii” il discorso, perciò, va spostato sui principi e valori che, secondo Magistratura indipendente, sono: dignità e professionalità dei magistrati e soprattutto autonomia ed indipendenza della magistratura, vista come unione di giudici e pubblici ministeri. Questo, dei valori irrinunciabili segna il punto di emersione di un grumo di problemi, in ordine all’assetto giudiziario, che sono bensì giuridici ma anche culturali.

In primo luogo, si tratta di appurare l’esatto contenuto degli enunciati costituzionali e la conformità o meno ad essi dell’attuale assetto giudiziario, nonché di stabilire i valori culturali che devono connotare anche questa importante istituzione statale; in secondo luogo, si tratta di vedere se sia necessaria una riforma e su quali basi, in quale misura e con quale procedura attuarla.

Per i magistrati ma anche per la maggioranza di giuristi e politici, nonché per l’opinione pubblica disinformata (più esattamente: ingannata) l’attuale magistratura è esattamente quella che i Costituenti configurarono nella Costituzione (significativo il fatto che negli scorsi anni i magistrati alla inaugurazione dell’anno giudiziario ostentarono la Costituzione e, più recentemente, anche il procuratore capo di Milano ha fatto altrettanto). La Costituzione – dicono all’unisono – non si tocca.
Sul primo aspetto del problema si deve osservare che, contrariamente a quanto si crede, la Costituzione ha configurato bensì l’ordine della magistratura autonoma ed indipendente da ogni altro potere, ma quest’ordine è comprensivo dei soli soggetti (giudici) cui spetta la sovrana potestà di amministrare la giustizia in nome del popolo, non anche del pubblico ministero visto ancora come organo amministrativo, istituito presso ciascun organo della giurisdizione, verosimilmente per vegliarne la correttezza (fin dall’antico il pubblico ministero era detto “occhio del Governo” sui giudici indipendenti). Tuttavia la Costituzione ha imposto al legislatore di determinare le garanzie che il pubblico ministero deve avere: il rinvio al legislatore fu reso necessario dal fatto che all’epoca il pubblico ministero era figura ibrida, accusatore ma in qualche modo e misura anche giudice (si è dovuto però attendere la riforma processuale del 1988 per vedere configurato questo organo quale ontologicamente è, cioè “parte”, senza più alcuna funzione giurisdizionale, quindi distinto e distante dal giudice). Si aggiunga che nel 1999 furono costituzionalizzate le linee essenziali del “giusto processo”- che postulano la netta separazione del giudice terzo dalle “parti” -, per concludere che l’attuale assetto giudiziario, cioè l’unione organica di giudice e pubblico ministero, è in assoluto, irriducibile contrasto con la Costituzione.

Peraltro, la funzione giudiziaria ed il relativo assetto implica un costante riferimento ai valori culturali della società moderna, in cui la giustizia è destinata a svolgersi ed attuarsi: non è contestabile, allora, che con la Costituzione si è configurato un nuovo rapporto tra autorità e individuo, in forza del quale questi ha diritto al giusto processo, le cui linee, come detto, sono consacrate in Costituzione, e che è certamente una garanzia per lui e per la collettività.

Pertanto, è necessario uscire dagli equivoci: quando si parla di Costituzione si deve far riferimento a quella formale, emanata nel 1947 dall’Assemblea costituente (per la quale la magistratura è l’ordine dei giudici), non alla normativa attuale che costituzionale non è, ancorché se ne affermi il contrario. Più che di un equivoco si tratta, infatti, di un inganno risalente ai comunisti, i quali sono stati magna pars nel configurare un ordinamento secondo cui la magistratura, di matrice monarchica (l’ordine giudiziario ex art. 4 ord. giud. 1941), avrebbe incassato quelle note prerogative, di autonomia ed indipendenza da ogni altro potere, che i Costituenti concessero, invece, solo ai giudici. E’ la falsa vulgata che è stata posta in circolazione fino a penetrare nell’immaginario collettivo.

Da parte loro i magistrati, organizzati in forma sindacale (Anm) – una vera e propria lobby – hanno difeso ad oltranza questa situazione, ricorrendo persino a forme di lotta (scioperi) inammissibili per coloro che sono stati investiti di una funzione sovrana, qual’è certamente l’amministrazione della giustizia; dimentichi, essi, che l’art. 108 della Costituzione assegna al Parlamento il compito di stabilire la disciplina dell’ordinamento giudiziario.

Dunque, invece della Costituzione formale se ne è configurata un’altra, proveniente non dal popolo, ma da gruppi egemoni del potere politico, che i giuristi denominano “Costituzione materiale”, intendendo per questa l’insieme delle norme effettivamente vigenti (non importa che siano, o meno, condivise da tutte le forze politiche), accettate dalla coscienza sociale come legittime, ancorché possano essere solo in parte conformi alla Costituzione formale o del tutto da essa difformi. Ma come ho detto l’opinione pubblica in proposito è stata ingannata dalla falsa vulgata.

Giuridicamente è legittima solo la Costituzione formale, perché essa è diretta espressione della volontà popolare (i membri dell’Assemblea costituente che emanò la Costituzione furono eletti, col metodo proporzionale, da tutto il popolo, non da una maggioranza) e perché si tratta di una Costituzione cosiddetta “rigida”, vale a dire che può essere modificata soltanto attraverso la speciale procedura prevista dall’art. 138, la quale postula o una maggioranza “aggravata” di parlamentari, ovvero una maggioranza semplice che, però, deve essere confermata dal popolo attraverso un (eventuale) referendum popolare.

Pertanto, alla stregua di questa incontestabile precisazione, il complesso di leggi comuni che riguardano l’assetto giudiziario, in quanto non conforme ai precetti costituzionali, si trova in una situazione d’illegittimità costituzionale: così è a dirsi per il mantenimento dell’ordinamento giudiziario fascista (che i Padri costituenti ritennero non conforme alla disciplina costituzionale, come si evince dalla settima disposizione transitoria) e così è a dirsi per il Csm, che comprende nella sua disciplina anche i pubblici ministeri che, per Costituzione, magistrati non sono.

In conclusione, bisogna riformare la Costituzione materiale in quanto non conforme a quella formale e, quindi, bisogna dar vita all’ordine dei giudici, operazione che non richiede il ricorso alla procedura di revisione perché si tratta, non di riformare ma di attuare la Costituzione.
Ma una riforma costituzionale è necessaria per risolvere il problema della responsabilità politica del giudice (che è cosa diversa dalla responsabilità giuridica e da quella disciplinare) per le scelte di natura politica ancorché col rito giurisdizionale (si parla di giurisdizionalizzazione della politica).

La responsabilità del potere in genere fu teorizzata fin dalla democrazia ateniese: si affermò che chiunque eserciti un potere pubblico è tenuto a renderne conto. Ovviamente nella democrazia ateniese il potere era direttamente esercitato dal popolo, cosicché la responsabilità era ipotizzabile solo per organi subalterni (come ad esempio il comandante dell’esercito), viceversa nella democrazia moderna, detta “rappresentativa” perché il potere è esercitato dai rappresentanti del popolo, la responsabilità è imposta a qualsiasi potere rappresentativo della sovranità popolare, oltre che, ben intesi, a chiunque eserciti un potere pubblico. Pertanto, anche la magistratura, che esercita un potere “forte” e che vanta prerogative assolute di autonomia ed indipendenza non può andare esente da responsabilità politica (oltre che giuridica – già sancita nell’art. 28 della Costituzione – per il risarcimento dei danni cagionati alle persone nell’esercizio del potere).

Da tempo ormai si è compreso che con l’avvento dello stato sociale (il welfare) il giudice non è più soltanto “bocca della legge”, ma è assurto a compartecipe del farsi e rifarsi dell’ordinamento giuridico, sia per delega del legislatore che per motu proprio. Ma come realizzare la responsabilità politica del giudice, nelle cui mani sono riposti la libertà e gli altri diritti fondamentali delle persone?

Si è detto che la responsabilità del giudice è il prezzo che bisogna pagare per avere un giudice indipendente, non asservito al potere: ma è soluzione non appagante, perché se è vero che l’indipendenza assoluta del giudice è valore irrinunciabile è pur vero che la libertà e gli altri diritti fondamentali della persone sono altrettanto irrinunciabili, specie se esposti al pericolo di un potere arbitrario siccome incontrollabile ed irresponsabile.

In un sistema di common law il giudice è nominato col criterio del during good behaviour, contravvenendo al quale il soggetto subisce l’impeachment e quindi la perdita della carica; in un sistema di civil law il giudice è in qualche modo controllabile, rispondendo in via gerarchica, fino al Ministro di giustizia.
Da noi, se non si vuole adottare uno dei suddetti sistemi, si potrebbe pensare alla Commissione parlamentare d’inchiesta, che accerti se la magistratura o il giudice singolo siano restati fedeli al ruolo assegnato dalla legge. Ad esempio, il Parlamento potrebbe e dovrebbe intervenire nei casi in cui la giurisprudenza crei il reato come è per quello di partecipazione esterna all’associazione mafiosa, che viola il precetto costituzionalmente sancito, secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge (art. 25 Cost.).

Comunque è una strada che deve essere approfondita, ma non v’è dubbio che per un potere burocratico che amministra giustizia in nome del popolo l’unico modo di rendere conto è quello di renderlo al Parlamento, diretto rappresentante del popolo.


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