Dunque Sgarbi è stato costretto, dall’indecenza siciliana, ad abbandonare il suo progetto di creare una “città d’arte” a Salemi.
Tanti anni fa, un radioso ma gelido mattino, vagando per la Necropoli Pantalica, luogo incantato in quel di Siracusa, incontro un pastore di mezza età che trema di freddo addossato ad una rupe. Infagottato di stracci rattoppati con multicolori pelliccette di coniglio, se ne sta a battere i denti nel bel mezzo d’un miserevole gregge di due-tre pecore e altrettante capre. Di Omerico c’era tutto quello che poteva esserci. Gli chiesi come mai se ne stesse là, immoto, senza cercarsi un riparo contro il vento tagliente. «Sì, fa fedddo», ammise gioviale, e poi, come per rassicurarmi: «maci ho la febbbe, io!». Senza ironia. Per lui la febbre era un buon metodo per riscaldarsi, forse persino una cura. Voleva rassicurarmi!
E’ una nota surreale, e commovente, che mi passa sempre di nuovo per la testa quando ripenso alla Sicilia, la splendida, che da tremila anni conserva l’atto di nascita dell’Europa. Tutto laggiù è eccesso, nel bene, nel bello, nel male. I fulgidi paesaggi, il dialogo che con essi intrecciano le mirabili opere dell’uomo, l’immensità pensierosa dei templi di Selinunte, di Agrigento, di Segesta, le chiese di Palermo che spuntano fuori da tonnellate d’immondizia, la cattedrale di Noto che, basta uno sguardo, ti dice che lo Spirito è là, al riparo dal tempo, ad attenderti…
E poi la geniale, alacre follía degli abitanti. Ricordo l’amabile figura di Antonino Bruno, il filosofo che voleva mediare tra i distinti dello Spirito crociano, l’ininterrotto discorso che Rosario Assunto ha tenuto, tiene, e terrà a coloro che amano la bellezza; la passione liberale di Virgilio Titone; l’ardente intelligenza di Rosario Romeo… E i fantasmi poetici, come quello di Mattia Pascal, che tentò invano di liberarsi del mistero della persona, il «sosia sociale» che tanto ci affligge…
E tutto questo splendore, tra cacofonie e stridori che fanno pensare a certi brani delle sinfonie di Mahler in cui celesti melodie si mescolano a cacofonie degne dell’Inferno; Leonardo Sciascia e Ciancimino junior percepiti attraverso il dissonante velo della violenza di usi e costumi sempre più criminosi. Velo? Ma no, è una spessa coperta, che sembra farsi sempre più pesante, sempre là, inesorabile, fin da… Ma da quando?
Da quando? Bisogna rileggersi le Lettere di Platone.
Come è destino di tutti i grandi, e dei piccoli, anche Platone è caduto nelle grinfie dei filistei. E ci cadde proprio in Sicilia. Fu in Sicilia, presso i tiranni Dionigi il Vecchio e poi Dionigi il Giovane, che Platone, a partire dal 388, e poi lungo un trentennio, tento’ di attuare un governo meno indegno dei soliti (già allora, «soliti»!), finalmente retto dall’idea della giustizia, quello che va sotto il nome di “repubblica dei Filosofi”. Ma già dallo stesso Platone questa “città ideale”, ovvero “la sola che il saggio accetterebbe di governare”, viene descritta, nella sua Repubblica, con dubbiosi accenti di disinganno. Gli attuali lettori di Platone, anche quelli colti, spesso tralasciano di captare il tono con il quale egli espone le sue idee e i suoi progetti.
Si usa ridere dell’«ingenuità idealistica» del progetto politico di Platone, dimenticando che Platone, molto meno ingenuo di noi, nella stessa Repubblica già afferma che tale città ideale, degna di esser governata da filosofi, non esiste e probabilmente non potrà esistere mai. E d’altra parte, egli definisce «filosofi» non quelli ai quali siamo abituati noi – dico i nostri «baroni» che berciano i soliti luoghi comuni semisofrologici in TV, spesso titolari non solo di rubriche sceme nei settimanali, ma anche di intrallazzi universitari e torbide alleanze politiche -, ma piuttosto «coloro che sono estranei alla città», come dice nel Teeteto, perché, aggiunge, il sapiente è allokotos (bizzarro), è àchrestos (inutile), è sempre simile ad una pianta «seminata in terra straniera» e dunque una pianta «cresciuta a malgrado della città». Altro che possibili reggitori di ideali Repubbliche!
Platone, con Dione nipote del tiranno, voleva trapiantare in Sicilia non un ingenuo ideale astratto, non un facile luogo comune; voleva fare un serio tentativo di inagurare un governo di galantuomini (vedi Lettera VIIª, 337 b). In vari dialoghi (Repubblica, Fedro, Amanti, etc.) egli mostra che il concetto di filosofia, e dunque quello di filosofo, sono concetti difficili, cui si può alludere solo per sempre di nuovo ripetuti tentativi, tentativi spesso persino contraddittorî. Concetti di cui occorre ovviamente tener conto, fino alla famosa, e magnifica, definizione contenuta nella bellissima qui sopra citata Lettera settima ai familiari e agli amici di Dione (lettera tanto bella, che è da ascrivere a Platone anche se, come alcuni sospettano, è apocrifa): la « sua » scienza, ovvero la filosofia, dice in 341 c, «non è una scienza come le altre: infatti essa non si può in alcun modo comunicare, ma si accende come fa la fiamma da un fuoco che ferve; nasce all’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e dopo una vita vissuta in comune, e poi va nutrendosi di sé medesima… » etc.
Sono parole stupende, gravi, e famose, che avrebbero dovuto esser scolpite su di una grande pietra in un edificando sacrario della Civiltà Occidentale, mai edificato, e che ormai sarebbe ahimé troppo tardi tentar di edificare.
Ma possibile, mi dico a volte, che l’Italia, e la Sicilia abbiano questo triste destino: il destino di concepire o ospitare edifici culturali di tale grandezza, cosi’ umani, cosi’ singolari, ma poi – sempre – destinati a scomparire, a sfumare nel novero delle cose invano sognate? E non solo questo: sfumare in una realtà che troppo spesso è diametralmente opposta a quella sperata?
Perché mai proprio in Italia, patria della bellezza, prospera vergognosamente inestirpabile il costume della deturpazione sistematica del bello? Già Proust si pose per iscritto questo interrogativo, e ne concluse che «gli Italiani odiano la Bellezza» (sic). E perché proprio qui da noi, dove si dice sia nato, fin dai tempi di Roma, il concetto del Diritto e il senso dell’amministrazione della giustizia, tanta secolare ingiustizia, tanta sfiducia nell’esercizio dell’equità, tanta Mafia, tanta Camorra? Perché proprio qui, oggi ma non da oggi, tanta «giustizia» ingiusta, tanti magistrati collusi e moralmente… contusi? Perché proprio da noi non solo Machiavelli, ma anche una lettura a contrario di Machiavelli? Notatelo: del segretario fiorentino oggi, qui da noi, si parla come di un astuto difensore della mascalzonaggine politica! E lo si ammira, quasi strizzando un occhio, proprio per questo!
Le spiegazioni economicistiche (leggi: stolte) di tutte le nostre strutture e sventure sono di moda: spiegazioni evidentemente le più facili e prima facie verisimili; e anche le più praticate, in tempi praticistici e volgari come i nostri. Ma allora perché mai negli ultimi secoli, in Andalusia ad esempio, regione nella quale il ventaglio dei redditi è stato più iniquamente divaricato che da noi, non si sono registrate putrefazioni etico-sociali altrettanto gravi? Quale è mai questo «disvalore aggiunto» che modifica in modo cosi’ sfavorelmente caratteristico il quadro italiano, in particolare quello meridionale ?
Ma torniamo alla Sicilia, ed alla delusione di Platone. In un luogo della sua VIIª Lettera qui sopra citata, egli incredibilmente precisa che non sono adatti a praticare la filosofia coloro che «sono fatti per vivere non secondo il costume patrio dei Dori, ma bensì al modo siciliano [sic!] degli assassini di Dione».
Accidenti! Che legnata! Firmata da Platone, duemila e cinquecento anni fa! Ecco delle caratteristiche dure a morire! Un mio carissimo amico mitteleuropeo, del quale non faccio il nome, anni fa si reco’ in Sicilia animato se non da grandiosi propositi alla Platone, certo da fattive intenzioni. A Palermo, tra aggressioni, intimidazioni e inganni, glie ne fecero tali e tante, che dovette ritornarsene avvilito sul continente. Dulcis in fundo, ci rimise la valigia, che gli fu rubata il giorno stesso della partenza.
E’ di pochi mesi fa la tragica fine di uno specchiato gentiluomo e galantuomo siciliano, Giuseppe Donia, perseguitato per decenni e infine praticamente assassinato a forza di calunnie e di violenze giudiziarie con l’accusa di essere affiliato alla Mafia perché trovato in possesso di 3 o 4 proiettili da fucile (da caccia: era in gioventù appassionato cacciatore) -, in realtà solo «colpevole» di essere politicamente di destra e quindi inviso alle sinistre isolane! Questo ancora oggi accade sotto le stelle siciliane, oggi, nel 2012.
Quante orrende porcherie ancora oggi, nell’isola in cui Platone rischio’ di perdere la vita nel carcere del tiranno!
Tutto questo per sdegnarmi come si deve, e non meno di quanto si deve, per la vicenda di Sgarbi a Salemi. Se questo puo’ essergli di conforto, pensi Sgarbi che a Platone accadde tal quale quel che è oggi è accaduto a lui. A lui ma anche a noi. Questo: a lui, ingratitudine, invidia, interessi contrari, pale eoliche e altre turpitudini. E a noi, vergogna, sconfinata vergogna e amarezza, per non essere capaci di difendere i nostri valori. Ovvero: difendere il meglio di noi stessi.
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