Oggi, quando si parla di “cultura”, non si sa bene di cosa si parli. Dal dopoguerra in poi, col fiorire delle scienze umane (sociologia,etc.), il vocabolo, e il concetto cui si riferisce, sono diventati polisensi.
1 – Nella vecchia accezione il termine cultura, ancora univoco, significava: “Conoscenza approfondita di tutto ciò che riguarda un dato ‘oggetto’ e le sue relazioni con argomenti attigui”. Era quindi un concetto che rinviava alla qualità e, nel caso, all’eccellenza del soggetto conoscente.
(In via subordinata, è da notare che questo “soggetto” della cultura può diventarne anche “l’oggetto”. P.es. Erasmo da Rotterdam e Philarète Chasles furono soggetti della cultura greca e latina classica l’uno, della cultura letteraria inglese l’altro. Ma io posso occuparmi di loro anche in quanto oggetti di cultura, scrivendo p.es. un “Erasmo umanista” o una “Vita di Philarète Chasles”, etc.)
2 – Oggi tutto è mutato. Cultura ora significa “insieme di usi e costumi che caratterizzano il modo di concepire la vita – e, meglio, di viverla -, di un determinato gruppo sociale”. Il vocabolo, questa volta, riguarda non il modo di pensare del singolo, ma il modo d’essere (anche inconsapevole) di un soggetto considerato come componente del gruppo cui pertiene. Qui in sostanza il soggetto non è più l’individuo, ma la società: infatti il concetto di cultura è ora diventato “sociologico”.
E’ naturalmente nella prima accezione del termine che noi lamentiamo la nostra attuale “perdita di cultura”: noi Italiani, in quanto individui, tendiamo a perdere la cognizione di noi stessi o, come si usa esprimersi col l’attuale tono rettorico, la “coscienza della nostra identità”.
Si potrebbe dire, approfittando della accennata anfibologia che oggi ha scisso il significato del termine, che noi non facciamo “cultura” della nostra “cultura”. Cosa grave: proprio in occasione delle celebrazioni del 150enario ci è stato da più parti ricordato che l’Italia corrisponde anzitutto ad un soggetto e ad un concetto culturali: sono le tradizioni culturali, e la nostra lingua, loro principale veicolo, ciò che ci lega e ci tiene insieme.
E’ stato ancora di recente notato che la lingua italiana sorprendentemente spunta dai dialetti locali – ben prima della “sintesi” teorizzata da Dante col suo “De vulgari eloquentia” – in ben due diversi luoghi dello stivale: a Siena in Toscana, a Lecce nelle Puglie. Significativamente, l’italiano che oggi parliamo è una dei più “vecchi” neolatini d’Europa: un testo del Petrarca o di Dante distano da noi molto meno di quanto distino coevi testi francesi o tedeschi dal francese o dal tedesco d’oggi. In realtà, il Petrarca noi possiamo leggerlo senza soccorso del vocabolario. Cosi’ pure il Boccaccio, e quanto a Dante, le difficoltà di cui sono irte le sue terzine sono più di contenuto che di lessico. Un Francese non può fare la stessa cosa con il testo originale di Rabelais, che pure è più recente di quelli di cui si è detto qui sopra.
Di questa venerabile creazione, la nostra lingua, e del maestoso fiume di vita consapevole, o cultura, di cui essa ci ha fatto dono, gli eredi siamo noi. Dalle irripetibili circostanze che hanno prodotto una delle più insigni “culture” d’Europa e quindi del mondo, noi traiamo la differenza specifica che ci fa uomini tra uomini nel concerto dell’Umano, dando senso alla nostra particolare maniera di essere.
Qui è opportuno approfittare dell’uso secondo del termine cultura, quello moderno, del quale parlavo all’inizio: cultura in quanto “ambito di usi e costumi, maniera peculiare di essere”. Si nota subito che questa “cultura” come modo d’essere corrisponde, qui da noi, ad un modo d’essere estremamente raffinato, a dispetto di tutti i nostri provincialismi e pacchianerie: perché corrisponde ad una lingua nata sul telaio d’una peculiare musicalità e signorile grazia, formatasi quasi pezzo a pezzo – come ci ricorda un intellettuale che abbiamo la fortuna di aver tra di noi, Vittorio Sgarbi – dalle eredità letterarie siciliane e toscane e via via delle regioni tutte e insomma della complessiva ricca cultura italiana.
E ciò naturalmente – poiché il “modo di sentire” infonde di sé ogni atto dell’esistenza – non esclude, ma anzi include, le eredità pittoriche, figurative, scultoree ed architettoniche, urbanistiche e paesaggistiche: insomma tutto ciò che ha contribuito a generare quel “sorriso italiano” che adorna i volti delle nostre Madonne, quell’atmosfera fine, aristocratica e mite che respiriamo nelle piazze e tra i palazzi d’Italia, anche giù a Noto ed a Catania, e su presso le Alpi, a Vicenza, a Cremona ed a Verona, e insomma ovunque. Si tratta di un inconfondibile genere che dà la tinta di fondo, oltre lo scorrere del tempo, a tutte le specie dell’essere Italiani. E’ quel peculiare tepore dello spirito, tra pensoso e festoso, che fece dire al Magnifico: “Chi vuol esser lieto, sia”, ed a Dürer, quasi di rimando: “Io qui mi sento un signore”. Proprio come, ai tempi di Pericle – commenta lo storico dell’arte Tatarkiewicz -, si era detto: “Qui da noi è festa tutti i giorni”. E’ la polimorfa Italia di Giovanni Papini, sempre se stessa pur nella straordinaria diversità dei suoi paesaggi e delle sue tradizioni, è lo spirito ironico ma non spietato di uno Zeno Cosini, la nostalgia composta dell’autore della Pisana e l’ingenua fede della Lucia del Manzoni, la perplessa cognizione del dolore di un Gadda…
Ma non ci si prenda per ingenui: anche da noi, in Italia, ci sono dolori grandi e piccoli, volgarità molta e infinite buffonate, cattiverie e lacrime. E purtroppo: assassinî fisici e morali, egoismi e durezze d’animo. Eppure ciò non impedisce che, al di là d’ogni bruttura e al di qua delle nostre frontiere, si avverta incoercibile il nostro peculiare carattere (si ricordi che Hegel definiva il carattere come l’essere della cosa), il calore di uno spirito costruito ed educato appunto sull’arte, sulla musica, sui pensieri tipicamente “universalistici” dei nostri filosofi e dei nostri poeti. I Concerti grossi di Arcangelo Corelli, il Mattino di Benedetto Marcello, i madrigali e gli oratorî di Claudio Monteverdi, il nostro Nabucco e la nostra Casta diva…, tutto ciò è noi, ingenuamente ma sicuramente noi, perché porta seco il colore di fondo delle nostre anime.
In questo senso la nostra cultura (nel secondo senso, come modo di vita) è appunto la stessa “cultura” nel senso primo. E si deve rilevare che questa identità delle due accezioni costituisce un fatto “antropologico” più unico che raro.
Ricordiamoci che il vocabolo signorilità risulta intraducibile in tutte le altre lingue europee. Tutto ciò è un lascito che può riempire l’anima di noi Italiani, ed infatti la riempie. Ma è uno stato di fatto da capire. Bisogna capirlo; e per capirlo, bisogna sentirlo; e per sentirlo, bisogna appunto aguzzare lo sguardo e tendere l’orecchio, sapere che c’è. Sempre di nuovo cercarlo, perché la cultura è appunto questo: un’attività della mente e dell’animo che si ciba dell’assiduità di sé con se stessa.
Ecco come “da noi” (come direbbe, col suo magnifico “italiano”, Italo Svevo) la cultura attiva del pensare, e quella (parzialmente) passiva dell’essere – di cui dicevamo all’inizio – si fondono in una; ed a noi spetta per specifica, speciale consegna, se lo vogliamo, coltivare questo angolo di giardino fiorito che si nasconde nell’anima di ciascuno di noi e, sempre se lo vogliamo, difenderlo anzitutto dall’oblío.
Oblío, proprio cosi’. In senso alto, dire oblío è appunto un modo semplice di dire: “carenza di cultura”. Quella carenza che ad esempio ci ha fatto perdere (spero non irreversibilmente) l’aiuto e la tutela di un uomo come Sandro Bondi.
“Fratelli d’Italia!” – ripeterò dunque, senza tema di risultare retorico – uniamoci anche e ancora adesso, in difesa di questa memoria e contro l’oblío di ciò che sono le nostre memorie; difendiamo le nostre opere d’arte, i nostri palazzi, castelli e musei, le nostre biblioteche che spesso vanno disperse, le nostre pinacoteche che spesso ammuffiscono negli scantinati. Abbiamo in sorte un signorile, sontuoso modo d’essere, una grande “cultura” sulla quale esercitare la nostra cultura. Non lasciamoci vincere da quella triste entropia dell’anima che sono il letargo dei sentimenti e il sonno della ragione.
A questo proposito, vorrei qui riportare un’idea importante, non mia, che riguarda un modo serio perché concreto di celebrare il 150enario: invece di gettare al vento denaro ed energie organizzando sagre sonore a squarciagola, balletti di dubbio gusto, “varietà” senza capo né coda, sarebbe il caso che ogni Regione ed ogni Comune destinassero un fondo di equivalente entità al restauro ed alla conservazione d’uno dei mille importanti siti, monumenti, manufatti artistici che costellano la Penisola ma che lentamente agonizzano.
Sarebbe un modo finalmente intelligente, e sommamente utile, di spendere il denaro pubblico, e pertanto anche un avvedutissimo investimento.
Leonardo Cammarano, 24 marzo 2011
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