Non mi sento di condividere l’entusiasmo per la recente sentenza della Corte di giustizia della Unione europea (Sentenza nella causa C-379/10 Commissione / Italia): “finalmente i magistrati pagheranno per i loro errori”!, si è scritto da più parti. E’ bene dire subito che è vittima dell’errore giudiziario sia il soggetto coinvolto nell’accertamento penale, sia la collettività sulla quale, in definitiva, grava l’esborso dell’Erario per il risarcimento del danno causato dal magistrato.
Non varrebbe osservare che lo Stato pagante ha azione di rivalsa nei confronti dell’autore dell’errore (art. 7 della legge n.117/88), per concludere che a pagare è solo il magistrato: così non è perché, a tacer d’altro, la misura della rivalsa non può mai superare la somma pari ad un terzo dello stipendio percepito dal magistrato nell’anno del commesso errore, anche quando siano più le persone vittime dello stesso errore nello stesso procedimento (art. 8, comma 3, stessa legge). Onde la differenza, tra quanto sborsato dallo Stato per il risarcimento e quanto ricavato dalla rivalsa (e non è molto), resta a carico della collettività. Lo Stato paga 90, riscuote 30 per rivalsa, grava su tutti noi 60.
La sentenza in questione, a ben vedere, non ha inciso direttamente sulla disciplina della responsabilità dei magistrati: essa ha riguardato la responsabilità dello Stato italiano (non già quella dei magistrati italiani) al quale si addebita l’inadempimento del principio generale di responsabilità degli Stati dell’Unione per la violazione del diritto comunitario da parte di un organo giurisdizionale. Certo la sentenza ha affermato che la normativa italiana sulla responsabilità civile dei magistrati è in contrasto con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto dell’Unione, ma – attenzione – in quanto esonera del tutto lo Stato da responsabilità per l’attività dei magistrati, sia quando questi interpretano norme di diritto o valutano fatti e prove, sia quando, fuori di queste ipotesi, tengono una condotta che, pur non essendo corretta, non è connotata da dolo o colpa grave (art. 2 della legge detta). Pertanto, come è chiaro, la condanna riguarda lo Stato membro dell’Unione europea in quanto gli è imposto dal diritto dell’Unione stessa di risarcire il danno (cagionato dal magistrato alla persona) conseguente alla violazione del diritto dell’Unione, purché sia al medesimo imputabile (quest’ultima condizione non è chiara: in che senso lo Stato è causa della violazione del diritto comunitario?). Il nostro Paese per adeguarsi ai canoni della sentenza europea ed evitare così la sanzione per l’inadempimento, dovrà riformare la legge n.117/88 sulla responsabilità dei magistrati: ma in che modo?
L’optimum sarebbe prevedere la responsabilità diretta dei magistrati che sbagliano in una a quella dello Stato: sarebbe questo un evento epocale che segnerebbe, la fine dell’anomalia italiana dell’esercizio del potere pubblico senza portarne la responsabilità civile (e senza responsabilità politica, essendo la magistratura potere burocratico, non elettivo). In fondo si tratterebbe di attuare la Costituzione, che all’art. 28 recita: “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”. Detta norma aveva trovato applicazione con le disposizioni del pubblico impiego del 10 gennaio 1957 (art. 22), ma non per i magistrati, la cui responsabilità civile per i danni cagionati alle persone coinvolte nell’accertamento giudiziario restava confinata nei limiti stabiliti dal codice di procedura civile fascista del 1941 (articoli 55 e 74), che la prevedevano unicamente per i casi di frode, dolo e concussione, cioè per casi di condotte penalmente rilevanti.
Vigeva ancora l’idea che la magistratura dovesse essere governata con “mano di ferro in guanto di velluto” (come da legge dell’inizio dello scorso secolo, nota come legge Orlando), per significare che il magistrato non dovesse rispondere dei danni che cagionava alle persone, ma dovesse sottostare ad una rigorosa disciplina, appunto di ferro. Come è dato constatare, oggi la disciplina è ipotesi più teorica che effettiva (si veda il documentato saggio di Stefano Livadiotto dal titolo “Magistrati l’ultra casta”, ed. Bompiani, 2009), mentre resta la copertura dello Stato quasi totale agli errori dei magistrati: loro sbagliano per colpa grave o addirittura per dolo e Pantalone paga.
Si ricorderà che nel novembre 1987 venne celebrato un referendum popolare per l’annullamento dei suddetti articoli del codice di procedura civile, che ebbe un esito quasi plebiscitario. L’opinione maggioritaria era nel senso di postulare una responsabilità del tutto simile a quella prevista per tutti i dipendenti statali; ma questa decisione referendaria fu disattesa dalla nuova disciplina sulla responsabilità dei magistrati, appunto la già nominata legge 13 aprile 1988, n. 117 che, del tutto inesattamente, venne titolata “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”. Si trattò, invece di un inganno, di una legge “truffa”, come fu subita bollata, perché stabiliva, non la responsabilità dei magistrati, ma quella dello Stato per gli errori dei magistrati, salvo il diritto di rivalsa entro certi limiti, come già visto, nei confronti del magistrato autore del danno.
Insomma le conseguenze degli errori dei magistrati sono state socializzate, cioè addossate alla collettività, come se a sbagliare fossimo tutti noi. Per ben due volte i radicali si fecero promotori di referendum popolare contro l’attribuzione allo Stato, e non ai magistrati, della responsabilità, ma entrambe le volte la Corte costituzionale dichiarò inammissibile la proposta con motivazione che però aveva la ragione dell’autorità, non l’autorità della ragione: affermò la Corte che la legge costituiva un giusto equilibrio tra l’esigenza del risarcimento e quella della “indefettibilità della funzione giurisdizionale. Ma, a parte che la legge incriminata non costituisce affatto un giusto equilibrio tra opposte esigenze, non è forse un diritto costituzionale del popolo lo stabilire, a mezzo del referendum, se una legge deve essere mantenuta o annullata? Fu, quello, un altro esempio della tracimazione della Corte costituzionale dall’alveo che gli è proprio, tracimazione cui ci ha ormai abituati, troppi essendo i casi in cui la decisione costituzionale rivela la propensione della Corte a porsi come superlegislatore.
Venendo ora ad esaminare più da vicino la legge n.117/88, che sancì la irresponsabilità dei magistrati per i loro errori (“non pagano mai”!), l’attenzione è all’art. 2 che – dopo aver stabilito “Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale -, esclude qualsiasi ipotesi di responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione dei fatti e delle prove (cioè il 99% dell’attività giudiziaria). La norma è così restrittiva delle ipotesi di responsabilità – come è evidente – che praticamente non ha avuto che scarsissima attuazione. I magistrati che si erano affrettati ad assicurarsi contro i rischi dell’errore professionali cambiarono idea dopo la promulgazione della legge in questione. Anche l’ipotesi del cosiddetto diniego di giustizia non ha avuto alcuna attuazione: la responsabilità si verificherebbe solo dopo la messa in mora del magistrato tenuto ad emettere il provvedimento che non viene emesso; quale parte si azzarderebbe a mettere in mora il giudice? Per ultimo, a restringere ancor di più il campo di responsabilità del magistrato sta il fatto che competente a giudicare sulla domanda di risarcimento è un collega del giudice presunto colpevole: si sa che la giurisdizione domestica (il giudice giudicato da un altro giudice) non è troppo affidabile perché cane non morde cane. Senza dire delle spese del giudizio, oggi enormemente aumentate, che il danneggiato è costretto ad anticipare…. e con il rischio di perdere la causa.
Previsioni sul futuro atteggiamento dello Stato nei confronti della sentenza europea in questione? Per ora il Governo ha ben altre gatte da pelare e, peraltro, giace in Parlamento il disegno di legge costituzionale sulla riforma della giustizia, che all’art. 16 prevede la riforma della disciplina della responsabilità in magistratura. Ma se dovessi azzardare un’ipotesi direi che lo Stato pagherà la sanzione per l’inadempimento, ma non cambierà la legge 117/88: impresa, questa, ardua se non proprio impossibile, stanti i rapporti conflittuali tra potere politico e magistratura. Vi sarebbe anche un’altra soluzione: lo Stato si accolla il costo di ogni errore dei magistrati: ma in tal caso il costo per la collettività sarebbe assai rilevante, a meno che si ipotizzi una rivalsa per l’intero esborso, ovvero una rivalsa graduata sul grado di colpa del magistrato. Il che appare, comunque, fuori delle strade percorribili, del tutto irrealizzabile. Insomma i magistrati continueranno ad errare e a non pagare.
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