LE TRE CRISI

L’Italia è afflitta da tre crisi: dell’economia, della politica e della democrazia. La crisi economica è la più avvertita da tutta la collettività perché primum vivere deinde philosophari, come dicevano gli antichi, ed è quindi anche la più urgente per la necessità di evitare che la società degeneri, lacerata in conflitti che portano alla violenza (si avvertono già segnali preoccupanti). La crisi politica emerge con evidenza per la incapacità della classe politica (di tutta la classe politica, compresa la magistratura) a svolgere il proprio ruolo, cioè il governo della collettività. La crisi della democrazia consiste nella mancanza di attuazione del sistema costituzionale, che configura i principi essenziali della democrazia liberale. E’ chiaramente istruttivo quanto sta avvenendo in questo periodo. In una navigazione difficile, non soltanto a causa del mare procelloso (appunto: la grande crisi economica), ma anche per l’emergere di scogli, si registrano turbolenze che fanno temere la tempesta o, comunque, esiti malsicuri per l’approdo. Fuor di metafora, nel centrodestra alcuni parlamentari sposano la tesi degli avversari (allargamento della base di consenso parlamentare), altri passano nel campo di Agramante (Udc), cioè nel campo di quelli che ritengono essere capaci di salvare il Paese da una catastrofe, senza però dire in che modo. Insomma, sta per essere stravolta la decisione del popolo voluta dal popolo nel 2008 e sta avvenendo l’umiliazione di un premier anch’esso voluto dal popolo. La situazione politica italiana, il vulnus alla democrazia è ”grave ma non è seria”. E’ vero che siamo il Paese che ha inventato la commedia dell’arte, ma a me pare che si stia esagerando. Oltre a tutto l’opposizione mostra di non sapere che se vuole entrare nella stanza dei bottoni deve avere il supporto di un responso delle urne.

La caduta del Governo Berlusconi, per getto della spugna, induce a riflettere su quanto accaduto, con il riflettore puntato sul Colle. Dopo oltre sessant’anni non siamo ancora riusciti a chiarire un punto chiave dell’ordinamento giuridico democratico: vige la Costituzione formale deliberata dall’Assemblea Costituente nel 1947, per la quale la sovranità appartiene al popolo, oppure la cosiddetta Costituzione materiale, per la quale la sovranità appartiene al Parlamento che può fare e disfare maggioranze e governi, anche quando contrastino con le decisioni del popolo, assunte nei modi canonici delle cabine elettorali? Scriveva John Locke, uno dei maggiori teorici della democrazia liberale, che il Parlamento ha natura fiduciaria, cioè è potere (rectius: funzione) delegato dalla sovranità naturale ed originaria degli individui; esso deve essere inteso circoscritto nei limiti della delega popolare, onde ogni qualvolta il Parlamento viene meno alla decisione del corpo elettorale, la fiducia accordatagli deve necessariamente cessare e il potere deve ritornare nelle mani di coloro che lo hanno conferito (§ 149 del secondo dei due “Trattati di Governo” del 1690). Regola, questa, che è oramai, da secoli, connotato costante delle democrazie liberaldemocratiche. Se così non fosse avrebbe avuto ragione Stalin quando affermava che nel sistema di democrazia borghese il popolo aveva solo il diritto di scegliere i suoi carnefici. Anche l’on. Meuccio Ruini, Presidente della Commissione dei 75, nella sua Relazione al Progetto di Costituzione, scriveva che “la sovranità spetta tutta al popolo che è l’organo essenziale della Costituzione […] che è la forza viva di ogni potere, l’elemento decisivo che dice sempre la prima e l’ultima parola”. Dunque, mentre per la Costituzione formale la sovranità del Parlamento è subordinata a quella del popolo, per la Costituzione materiale la sovranità, dopo l’esercizio del voto popolare, passa al Parlamento, che può fare il bello e il cattivo tempo. Va da sé che legittima è solo la sovranità del popolo.

Per superare lo scoglio della sovranità popolare si dice, con dissimulata capziosità, che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” (art. 67 della Costituzione); se ne deduce che è pienamente legittimo un Governo supportato da una maggioranza diversa da quella scaturita nel modo canonico dalle urne ed è legittimo il passaggio di membri da uno schieramento all’altro. In contrario si rileva che il dettato dell’art. 67 appena citato va armonizzato (i combinati disposti) con l’articolo 49 della Costituzione medesima, che assegna ai partiti il compito di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Consegue che se è vero che ogni parlamentare, quale rappresentante della Nazione, deve perseguire in libertà di coscienza l’interesse generale, questo interesse va pur sempre riguardato nell’ottica del partito o della coalizione cui ha aderito. E’ insostenibile ritenere che ogni parlamentare valuti in assoluta autonomia qual è l’interesse generale. In altri termini, il principio della libertà da vincolo di mandato non esclude il rapporto fiduciario tra l’eletto e i suoi elettori, posto che l’elezione avviene sulla base di scelte che implicano valutazioni sia in ordine al programma del partito sia in ordine alla fiducia che i canditati (quand’anche imposti dal partito) possano aver ispirato agli elettori (cosi Vezio Crisafulli, emerito giudice della Corte Costituzionale). Perciò libertà di mandato significa che il parlamentare è libero di attuare, e senza ritorsione alcuna del partito, il programma che ha costituito la ragione della sua elezione, ovvero di potersi sottrarre agli ordini del partito quando siano contrari alla propria coscienza (così Costantino Mortati, uno dei Padri della Costituzione). Per altro, la libertà da vincolo di mandato è riferita “all’esercizio delle funzioni”, quindi ai provvedimenti, e non autorizza il parlamentare a passare, armi e bagagli, nel campo avverso, perché ciò significherebbe “tradimento” sia nei confronti del partito, che è stato artefice della sua elezione e che includendolo nella lista ha manifestato fiducia in lui, sia nel confronti degli elettori che lo hanno eletto.

Per ultimo, non ultimo, c’è il problema della titolarità del potere di scioglimento del Parlamento. L’art. 88, comma 1 della Costituzione prevede che “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse.” Se ne è dedotto da certa parte politica che “Le Camere si sciolgono se e quando il capo dello Stato e soltanto lui, ritiene che questa sia la miglior risposta da dare nell’interesse del Paese e della democrazia parlamentare (cfr Adnkronos 13 agosto 1910): lo scioglimento del Parlamento sarebbe, in altre parole, “prerogativa” del capo dello Stato. Ma i Costituenti lo esclusero: l’on Dominedò, membro della Costituente, voleva che fosse precisato che il potere presidenziale di scioglimento dovesse esercitarsi in via di prerogativa, vale a dire che nell’esercizio di esso si dovesse prescindere dalla controfirma ministeriale (prevista dall’art. 89 della Costituzione). Contro tale emendamento si pronunciò l’on. Vitt. Em. Orlando, il quale osservò che non era comprensibile come un potere così grande, e per di più personale, potesse soverchiare e dissolvere la rappresentanza della Nazione. Il relatore, on Tosato, gli dette ragione rilevando che “la Commissione rimaneva ferma sul principio fondamentale che nessun atto del Presidente potesse aver luogo senza la controfirma di un ministro responsabile”. Posto ai voti, l’emendamento Dominedò fu respinto e l’articolo 84 del Progetto approvato. Non si trattò, perciò dell’opinione di questo o quel Padre costituente, bensì di una decisione presa dai Costituenti con apposita votazione. Orbene, se il Capo dello Stato decide per lo scioglimento significa che si è assicurata la controfirma dell’Esecutivo al relativo decreto, che altrimenti non sarebbe valido (è questa soluzione di buon senso e, soprattutto, coerente col principio della sovranità popolare); se, viceversa, il Presidente volesse dar vita ad un governo diverso dalle indicazioni del voto del 2008, quindi con l’inclusione in una nuova maggioranza di parte di quelle forze politiche uscite sconfitte dalle urne, allora a mio modesto avviso verrebbe meno al giuramento, prestato davanti al Parlamento in seduta comune, di osservanza della Costituzione (art. 91 Cost.).

La Costituzione non prevede che se la maggioranza indicata dagli elettori svanisca (per qualsiasi motivo) il Presidente della Repubblica possa sostituirla con una di propria scelta, quasi che il Capo dello Stato avesse una sovranità vicaria. Perciò la parola sarebbe dovuta tornare al popolo. L’Italia avrebbe pagato il prezzo di una campagna elettorale nel pieno della crisi dell’economia e la responsabilità sarebbe stata di quanti ne hanno dato causa.


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