Non si comprende perché, nelle più diverse tradizioni culturali, il concetto di “destino” (moira, fatum) abbia acquisito, e poi sempre conservato, un carattere di negatività. Tutti i casi della vita: una sequela di eventi, un singolo accadimento, una intera esistenza, se si producono in modo piacevole non vengono considerati imposizioni del destino. Ben al contrario, guai e sciagure vengono subito attribuiti al destino.
Da questa stranamente asimmetrica convinzione discende che, poiché il destino si palesa con la nota della ripetizione, anche cio’ che è negativo ha carattere di ripetizione. Ma questa circostanza della coazione a ripetere ci porta al centro della faccenda: il destino è considerato strettamente connesso alla qualità della persona che lo subisce, è visto come conseguenza del nostro carattere.
Infine, dall’insieme delle suddette convinzioni vien fuori il seguente risultato: se noi pensiamo che i nostri futuri guai, dolori, smacchi, siano come prefigurati nel nostro carattere, ne consegue che nello svolgersi della nostra esistenza soltanto cio’ che potrebbe esservi di positivo sarebbe al riparo dal destino, dunque dalla coazione a ripetere. Solo il positivo, dunque, potrebbe accogliere ed esprimere la nostra libertà, avere carattere di autentica imprevedibilità, di vivificante fantasia. “Potrebbe!..
Ci si puo’ a buon diritto chiedere che cosa, nei secoli della nostra storia, ci abbia portati ad un cosi’ costante pessimismo. La risposta più banale viene alle labbra quasi da sé: è stato il Cristianesimo… Fu questa, ad esempio, la risposta di Federico Nietzsche. Ma, intorno al nostro sentire, alle nostre convinzioni e tradizioni, fanno ressa troppi fatti contrari a tale semplicismo. Basterebbe pensare all’universalità del rito del sacrificio; oppure all’obbligo della prova (d’amore, e non) di tutti miti e di tutte le fiabe del mondo; alle trame di tutte le tragedie, greche e non; al sempre ribadito carattere di “baratto” di ogni nostro passo riuscito; all’implicito obbligo di “pagare” ogni momento di felicità a questo mondo…, per concludere che non è stato il Cristianesimo a fondare l’idea che concepisce il destino come detentore esclusivo di circostanze avverse. Il Cristianesimo probabilmente ha soltanto enfatizzato una convinzione che sembra addirittura far parte della “colorazione” di base, della stessa impalcatura strutturale della psiche umana. Direi che Kafka ha ragione: l’uomo si sente, e si è sempre sentito, colpevole -, ma colpevole in un mondo altrettanto colpevole, colpevole almeno quanto lui. Sono pensieri come questi quelli che possono, ad esempio, spiegare la voga che ebbe il famoso acquarello di Klee, Angelus novus, e la selva di commenti e chiose che esso suscito’ tra i letterati mitteleuropei degli anni ’20.
Ma questo mito di un futuro sempre contrario alla nostra precaria felicità, l’idea stessa di questo “angelo”, o destino, sempre terrifico, resta per fortuna estraneo al nostro sentire “mediterraneo” (diremo con Jean Grenier). Anche noi “mediterranei” abbiamo, certo, esempi di destini avversi, coorti di individui dal carattere negativo, e pertanto negative coazioni a ripetere; ma il tono d’insieme è meno torvo, talora persino un po’ comico, e insomma tale da smentire il nero, chiuso panorama di cui sopra. Comica è, ad esempio, la traduzione “mediterranea” dell’ Angelus novus, che da noi quasi irriverentemente corrisponde al termine “jettatore”.
Ma ecco qui di seguito due casi, nostrani, di caratteri “difficili”, e dunque di destini sfavorevoli e relative malvagie coazioni a ripetere.
Il primo caso è quello del nostro Presidente della Repubblica. Il personaggio porta seco, come chiunque altro, un particolare carattere e dunque un particolare destino. Il carattere è sfavorevole perché è apprensivo: prima timidezza e poi, scavando più a fondo, una predisposizione alla prudenza che sfiora la paura. Egli insomma è il contrario di uno jettatore. Vittima, non carnefice, è visibilmente “un’anima scissa”, non contenta di sé. Probabilmente egli sa di “non essere all’altezza”, e forse corrisponde al vero l’impressione che gran parte delle sue preoccupazioni sia da lui dedicata ad occultare questa carenza, e ad approfittare d’ogni occasione “facile” atta a mostrare ardimento.
Ed ecco che al nostro prode Presidente si presenta l’occasione d’oro: i capricci secessionisti dello sconclusionato Bossi. Non c’è problema meno “pericoloso” del problema costituito dalla Lega Nord: il nostro vi si getta a capofitto; ma, ad abundantiam, munendosi della cautela supplementare del ritardo. Reagire con ritardo significa assodare previamente che non si rischia assolutamente un bel nulla.
Tutto questo, insomma, contro Bossi. E invece, contro i pericolosi “magistrati” (già la parola fa ormai pensare al Klamm di Kafka), che vanno attuando una ben più tremenda secessione, non della Padania dal resto d’Italia, ma bensi’ dell’Italia da se stessa, ovvero dei nostri pochi cervelli pensanti dalla moltitudine di encefali andati a male e di animi vili, vergognosamente contaminati dal particulare? Nulla di nulla. E della figura morale del Presidente stesso che, in quanto “capo” della baracca tribunalizia, è il primo ad essere ingiuriato dall’etica impresentabilità della situazione? Niente di niente.
Conclusione: Signor Presidente, il Suo carattere è fin troppo chiaro. La Sua coazione a ripetere, evidente. E’ facile abbaiare quando non c’è pericolo di azzannamento. E Lei, ad esempio, Lei che è il Capo In Testa della latrante Baracca della nostra magistratura, di fronte alle malefatte della Giustizia se ne sta zitto e buono, e lascia che si faccia strame del diritto, della libertà degli innocenti, della vita dei condannati incolpevoli, del tempo, della pazienza, degli anni di uno come Berlusconi, al quale Lei invece, per legge morale e scritta, dovrebbe porgere solidarietà e tutela. Invece di prendersela con gente come il Lepore, tanto per fare un nome, Lei coraggiosamente se la prende col Bossi e con i suoi Padani, che non reprimende meriterebbero, ma lodi e ringraziamenti perché col loro lavoro tenace e il loro senso della realtà mantengono in piedi il floscio Stivale! Bravo Presidente! Ponzio Pilato, che almeno ammise lo scorno “lavandosi le mani”, si comporto’ meglio di Lei.
Nota – Il Presidente potrebbe tuonare: ma come vi permettete? Dichiararmi… fifone!? Dove sono le concrete prove? Risposta: “Presidente, scelga: o fifone, o colluso”. Il Suo silenzio non consente altra via d’uscita. Lei converrà con noi che essere fifone è meglio che essere d’accordo.
Secondo caso: l’inserzione pubblicata sui giornali dal dottor Della Valle. L’uomo è benintenzionato; anche lui non è jettatore, ma ha anche lui un carattere sfavorevole e non eleganti coazioni a ripetere. Alla prima, per meritargli convinte lodi basti cio’ che egli va facendo per l’Italia monumentale (il Colosseo). In Italia non vi sono altri mecenatismi degni di stare a paro del suo. E io spero, voi tutti certo sperate, che il suo esempio troverà adeguata risonanza e risveglierà almeno alcuni tra quei facoltosi Italiani e puzzoni varî che vergognosamente continuano a russare tra whisky, bridge e intermittenti titillamenti erotici, mentre i nostri monumenti se ne vanno a pezzi per mancanza di fondi.
Tuttavia, anche qui, ecco pararsi innanzi a noi un carattere, e dunque un destino munito di tanto di coazione a ripetere. Si tratta di un Italiano delle Marche. Fosse stato, ad esempio, un Inglese tipo “regina Vittoria”, nel manifesto che ha fatto pubblicare Urbi et Orbi a proprie spese avrebbe parlato, nomi e cognomi, di Tizio, di Caio, di Sempronio. Che so, non certo del nullismo rancoroso di Eugenio Scalfari, o del dannoso Paguro Bernardo Debenedetti, ma piuttosto di qualcuna delle molte toghe dei nostri imparzialissimi Tribunali, tanto degne di ammirata attenzione, etc.
Voglio dire, Della Valle è uomo di qualità e di coraggio? Si’, ma allora perché se la prende coi gruppi, e non con i singoli? Verba generalia = misura di prudente sicurezza. E’ facile dire: “in Italia tutto va male”. Meno facile sarebbe dire: “La carcerazione dell’On.Papa è una vergogna, una illegale privazione di diritti che si rivolta contro l’onore e la dignità dello stesso Presidente della Repubblica, avvilendo di quest’ultimo la persona e l’autorità”; “Bravi, state ammazzando Contrada, e con questo? siete contenti, ora? E, se nessuno ha pagato qualcuno, sappiate che la cattiveria gratuita è particolarmente ripugnante”. Etc.etc. E bisognerebbe esprimere sdegno, sempre di nuovo, per il silenzio “del Colle”. Come si sa, delle porcherie dei componenti di qualsiasi baracca risponde il responsabile, ovvero il Capo-baracca. E allora? Sparare nel mucchio è facile.
Ed è qui la conferma del discorso che facevamo all’inizio, dico il destino come aspetto del “carattere” e pertanto origine della “coazione a ripetere”. La prova del 9 la si è avuta a Ballaro’, ierl’altro. Il carattere di Della Valle è quello della media (forse mediopiccola) borghesia italiana, che usa colpire dove è facile, senza risparmiarsi poi lo sfoggio soddisfatto della maleducazione impune. E’ spuntata fuori la “crepidam” di famiglia…! e poi è andato ben “ultra”. Come gli è venuto in testa, lui che si picca di essere un esemplare di prima scelta, miliardario “con 20mila dipendenti”, incrociatore e transatlantico privati, jet spetezzanti, elicotteri con trenta eliche, ville con triplice piscina a Capri, a Malibu, ad Afragola, a Castropignano, al Poveromo, a Capo Spaccavento etc., di chiamare un gran signore come Bondi “garzone di bottega”? Faccia uno sforzo di mente e di coscienza chic (potrebbe cosi’, a forza di sforzi del genere, finire coll’averne una): il Berlusconi una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta: essa non è né nel suo destino, né nel suo carattere, nel suo DNA dico, e dunque nel suo modo di ripetersi.
Della Valle potrebbe obiettare che, dal punto di vista “sociologico” (che, quanto a determinazione del carattere, conta molto, contro ogni dottrinaria prevenzione), sia lui che Berlusconi provengono dal medesimo strato (media, forse mediopiccola borghesia) e dalla identica storia (colossali ma assolutamente leciti arricchimenti). Già, ma il fatto è il seguente: Berlusconi ha il sentire d’un signore; il Tod no, non ce l’ha. Meglio detto: Berlusconi “è” un signore; Della Valle “non” lo è.
Qui fa la sua comparsa la pennellata umanamente “liberale” di tutto il discorso sul destino, carattere e coazione a ripetere. Essa pennellata è chiaramente enunciata dal noto detto latino: sidera inclinant, non destinant, che tradotto a senso suona: il nostro destino ci spinge si’ ad andare in una certa direzione, ma poi non ci costringe ad andarci.
Ed ecco come accade che mentre Bondi resta un gran signore dal tatto impeccabilmente limpido, che gli consente di condursi serenamente, nel rispetto sia della verità che degli altri -; e mentre Berlusconi scherza si’, imbandisce cene con belle ragazze, squadra le corna, talora straparla, racconta barzellette spinte etc.-; il Della Valle invece “esce fuori dalla ciabatta” e si comporta da tronfio sutor a casa d’altri, anzi, guarda eleganza!, proprio a casa dell’ingiuriato, mentre il genuflesso Floris gli mostra ennesimamente il suo elegante bidente incisivo.
Tutto questo per dimostrare che il nostro carattere è coriaceo, cosi’ come lo è il nostro destino e la sua conseguente “coazione a ripetere”; che le stelle stanno a guardare, inclinano ma non destinano; e che dunque per fare un vero signore non basta neppure il restauro del Colosseo.
In cauda, un’idea: Della Valle lasci perdere la Marcegaglia e le sue collusioni coi Sindacati. Qui Marchionne ne sa più di lui. E gli Italiani di tali collusioni portano i lividi e le ferite ancora aperte. (Vero è che questa bὸtta contro Marchionne potrebbe fruttare simpatie sindacali moltiplicate per ventimila -, ma questa è solo una malignità “alla Tod”). Lasci stare – e, per concludere, eccogli un’idea: se ne venga a Napoli, il Della Valle. Prenda lezioni (gratuite) di comportamento presso certi raffinatissimi gentiluomini che io conosco e ai quali io sono in grado di presentarlo, ma che qui non nomino perché detestano che si parli di loro – e poi, cosi’ liberato dall’odor di tomaja e di colla forte, rinfrescato e ravviato, (e, mi raccomando, senza l’obbligatoria “cravatta Marinella”), si accinga a restaurare filologicamente Piazza Mercato, che è (anzi: fu) una delle sette meraviglie e trentasette bellezze d’Italia e che, per noi Italiani tutti, del Nord, del Sud, delle Isole e delle Regioni a Statuto Speciale, vale quasi quanto la metà d’un Colosseo. Forza, dài col gomito, lesina, trincetto, spago e colla forte! Sia detto senza allusioni!
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