Due modelli di processo penale contrapposti. Il processo appena concluso – ma solo nella fase dell’appello – nei confronti di due giovani, Raffaele Sollecito e Amanda Knox (questa, cittadina statunitense), condannati in primo grado quali concorrenti, assieme al livoriano, Rudy Guede (giudicato e condannato in separato processo) nell’omicidio della cittadina inglese Meredith Kercher, studentessa all’Università per stranieri di Perugia, offre l’occasione per una riflessione sui modelli processuali penali vigenti in Italia e negli Stati Uniti d’America. Tutto il mondo statunitense ha pesantemente criticata la nostra giustizia.
Mi guardo bene dall’inoltrarmi sul terreno dei commenti di merito in ordine alla clamorosa vicenda, sia perché non conosco gli atti e sia, soprattutto, perché, trattandosi di processo indiziario, prendere posizione pro o contro la decisione assolutoria significa esporsi all’insuccesso. Intanto, va precisato che la prova in ordine ad un fatto reato può essere diretta – che si ha quando il collegamento tra l’imputato ed il reato è direttamente emergente dalla realtà (ad esempio l’imputato è sorpreso mentre commette il fatto, situazione che si chiama flagranza); ovvero la prova è indiretta (è la maggior parte dei casi) – che si ha quando si desume da elementi logici, cioè da fatti e circostanze noti che consentono di risalire in via di logica dall’ignoto al noto (ad esempio, la presenza di una traccia sulla scena del delitto, orma o macchia di sangue: si chiama prova scientifica). L’art. 192, secondo comma, del codice di procedura penale recita: “l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”. Ma, bisogna fare i conti con la logica del giudice, il quale, come è noto, non è in alcun modo responsabile delle sue decisioni e, peraltro, percorre la carriera senza che sia sottoposto ad un controllo di merito in ordine alla professionalità: la carriera è scandita quasi completamente dall’età, che non garantisce affatto della sua adeguatezza all’alta funzione. Ma bisogna pur dire che il giudizio per indizi, ancorché non sia esente da errori (e quale attività umana è sottratta alla possibilità dell’errore?) è un grosso passo avanti rispetto ai metodi disumani del passato: si ricordino le cosiddette “ordalie”, che consistevano in prove cui si sottoponeva l’accusato (ad esempio del fuoco) cui si faceva derivare il giudizio divino circa la colpevolezza o l’innocenza (erano perciò dette giudizi di dio); ma un posto notevole era dato dalla “tortura”, che è infuriata per secoli in tutta l’Europa (si ricorda il famigerato Torquemada, inquisitore spagnolo del cinquecento), strumento atroce la tortura, volta ad ottenere la confessione dell’accusato, mediante strazianti costrizioni fisiche; tortura che poteva reiterarsi al fine di ottenere la chiamata dei correi. Contro la disumanità di tale strumento si levò la denuncia degli illuministi, tra i quali il nostro Cesare Beccaria (“Dei delitti e delle pene”). Si ricorda, tra i processi con tortura, la storia, riportata da Alessandro Manzoni: due innocenti – Guglielmo Piazza e Alessandro Mora condannati confessi a seguito di tortura di essere “untori” durante la peste a Milano nel 1630; dove era la casa del Mora, rasa al suolo dopo e per effetto della condanna, venne eretta una colonna che fu chiamata infame, a memoria di quel giudizio disumano e contro giustizia.
Se la decisione giudiziaria in processo indiziario dipende dalla logica del giudice è naturale che può venire ribaltata da altro giudice, chiamato a decidere la causa in un ulteriore grado del giudizio (di appello o di cassazione), come è avvenuto per Amanda Knox e Raffaele Sollecito; così come la sentenza di assoluzione in primo grado può essere convertita in condanna in seguito ad impugnazione (come avvenne per il caso Lorenzo Bozano, assolto dalla Corte di Assise di Genova dall’accusa di omicidio della tredicenne Milena Sutter fu poi condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise di Appello di Genova). Quale di due giudici, quello del primo grado o quello dell’impugnazione, coglie nel segno non è facile dire e, oltretutto, è una domanda inutile: la verità (quella processuale) è quella che risulta dalla sentenza definitiva, salvo un rivolgimento in sede di revisione, ove ammesso. Da noi è ammessa la revisione della condanna non dell’assoluzione.
La nostra normativa processuale constava fino al 1988 di un modello cosiddetto misto, inquisitorio nella fase istruttoria, segreta e scritta, sicché i verbali relativi alle attività compiute senza contraddittorio dagli inquisitori finivano per costituire fonti di prova nel dibattimento; accusatorio nella fase del giudizio, ove però il contraddittorio tra accusa e difesa si muoveva sui binari delle acquisizioni istruttorie, difficilmente ribaltabili. Dal 1988 abbiamo un nuovo modello processuale, a stampo completamente accusatorio, del quale sono pilastri essenziali: il giudice terzo, la parità delle armi tra accusa (il pubblico ministero è configurato, senza ibridismi di sorta, parte processuale, cui è contrapposto la difesa); la pubblicità dell’acquisizione delle prove ad istanza delle parti. Tutto ciò è restato, però, sulla carta: non abbiamo il giudice terzo, ma un giudice, unito da vincolo organico all’accusatore, spesso appiattito sulle posizioni di questi; non abbiamo di conseguenza una vera parità tra accusa e difesa, mancando una pari equidistanza di queste dal giudice; abbiamo, invece, formalismo ipocrita, un pubblico ministero che non siede più sul podio a fianco del giudice, ma in basso a fianco della difesa: tuttavia la colleganza tra giudice e accusatore consente, in fatto, rapporti ravvicinati tra gli stessi, qualche volta occulti, fuori dalle udienze. Entrambi hanno i loro uffici in uno stesso palazzo (detto di giustizia). Abbiamo, di contro, un possibile attivismo del giudice, sia nel senso di intimare al pubblico ministero, che aveva chiesto l’archiviazione, di elevare l’imputazione e quindi di esercitare l’azione penale, sia nel senso di non ammettere testimoni a difesa, sia, infine, d’indicare alle parti temi nuovi di prova (spesso è una ciambella di salvataggio per il pubblico ministero), In conclusione: abbiamo un falso processo accusatorio, onde le garanzie del giusto processo (art. 111 della Costituzione) scadono a livello di pura declamazione; e di qui l’aumento di errori giudiziario ed il ricorso alle impugnazioni i cui giudizi tuttavia non sempre sfuggono, anch’essi, all’insidia dell’errore. Quando si dice “giustizia è fatta” non si ha consapevolezza dei limiti della giustizia italiana, esposta di continuo ad errore: chi ha sbagliato il giudice di primo grado che ha condannato due giovani innocenti? o il giudice dell’appello, che ha assolto due colpevoli? E l’errore si traduce in un duplice errore: è ingiusta la condanna dell’innocente ma grida vendetta l’impunità che, con la condanna dell’innocente, è assicurata al colpevole. E l’errore per di più può comportare il danno della collettività per l’esborso di rilevanti somme di denaro a titolo di riparazione del danno cagionato all’innocente dalla ingiusta condanna (annullata in sede di revisione), ovvero dalla ingiusta carcerazione preventiva. I magistrati non pagano mai per i loro errori: a pagare sarà Pantalone, cioè tutti noi.
Il processo penale americano è, invece, a stampo realmente accusatorio; per citare solo uno degli aspetti che connota la giustizia americana: il giudice è effettivamente terzo, al di sopra delle parti – la cui funzione è garantire la correttezza del dibattito -, non solo: il pubblico ministero ha uffici fuori del Palazzo di giustizia e non può avere contatti con il giudice se non con la presenza dell’altra parte. Inoltre, altro aspetto rilevante, il giudice non decide della colpevolezza dell’accusato, essendo il giudizio (bifasico) riservato alla giuria, mentre al giudice è riservata l’irrogazione della pena se la giuria ha ritenuto l’accusato colpevole. Passando alle note più propriamente processuali, si rileva, innanzitutto, che il processo riguarda una minima parte dei reati commessi (il 5/10 %): se l’accusato si dichiara colpevole o patteggia la pena con il pubblico accusatore non vi sarà il processo ed il caso si conclude con la sentenza che irroga la pena. Altra connotazione: tutte le prove addotte dalle parti sono acquisite nella pubblica udienza, in contraddittorio delle stesse, mentre l’attività predibattimentale raramente ha valenza probatoria in udienza (ad esempio, l’arma del delitto repertata da un agente di polizia durante una perquisizione viene mostrata all’agente stesso, assunto a testimone, al solo fine della conferma che si tratta della medesima arma repertata: quel che fa prova è la dichiarazione del teste). Perciò le prime, grandi garanzie del processo equo sono la separazione dell’organo dell’accusa dal giudice e l’assoluta parità delle parti, accusa e difesa e, infine, la giuria. Intendiamoci: non affermo che la decisione della giuria (colpevole o non colpevole) sia il vangelo che rivela la verità. Anche la giuria può sbagliare ed a volte sforna verdetti scandalosi: anche la giustizia americana non è senza pecche, come dimostrano numerosi casi di errori, qualche volta irrimediabili, le cui vittime sono finite sulla sedia elettrica. Chi non ricorda il caso di Caryl Chessman, innocente, giustiziato appunto con la sedia elettrica? Tuttavia, stante l’esiguità dei casi che si concludono con un processo, stante la garanzia dell’effettivo giusto processo, si può affermare che in America le probabilità dell’errore giudiziario sono abbastanza limitate. Se il nostro processo fosse effettivamente e completamente a stampo accusatorio, come nella giustizia degli Usa, anche da noi il numero degli errori giudiziari potrebbero essere di molto limitati. E di conseguenza la nostra giustizia sarebbe più credibile. Ma va anche detto che è estremamente necessario assicurare che i magistrati siano professionalmente adeguati all’alta funzione cui sono deputati: un proverbio cinese dice che è meglio che una cattiva legge sia amministrata da un giudice saggio, che una buona legge sia amministrata da un giudice non saggio.
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