E’ abbastanza paradossale il fatto che più l’autorità giudiziaria fa uso – spesso illegittimamente, incurante dei limiti della legge (anche costituzionale) – delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche tra privati, più il potere politico (in particolare l’attuale maggioranza parlamentare) resta inerte, del tutto incapace di reagire, come se fosse intontito (quale pugile suonato) dai colpi degli inquisitori; a meno che l’inerzia sia dettata dalla necessità di non inasprire, con un intervento legislativo, il conflitto, già caldo, con le toghe (è, questa, è, a mio avviso, l’ipotesi più verosimile e tralascio d’indicarne l’intuitiva ragione).
Intanto vorrei ricordare – a beneficio di quanti hanno interesse a conoscere meglio questo pericoloso strumento – che il Senato ha approvato, fin dal 10 giugno dello scorso anno, un disegno di legge di iniziativa governativa, già approvato in precedenza dalla Camera dei deputati, avente ad oggetto, tra l’altro, norme in materia di intercettazioni telefoniche (ma il provvedimento giace su un binario morto).
Non è mia intenzione entrare nel merito di questa complessa e per certi aspetti intricata tematica, che riguarda sia le distinte fasi dell’esecuzione e dell’acquisizione processuale della intercettazione, sia la fase della pubblicazione dei risultati. Peraltro trattarli adeguatamente richiederebbe molto più spazio di quanto è consentito a questo mio intervento, che intende solo riflettere su alcuni aspetti problematici, a cominciare da quello che involge il quesito: è costituzionalmente legittima in una società democratica una intromissione dell’autorità nella sfera privata di libere persone? Alcuni danno risposta positiva al quesito, ritenendo essere preminente l’esigenza della giustizia penale (pereat mundus, fiat justitia) – tra questi vanno annoverati alcuni giudici costituzionali, come dimostrano le sentenze che hanno annullato le leggi (i lodi) intese a sospendere i procedimenti penali nei confronti delle massime autorità dello Stato -; altri ritengono necessario un bilanciamento degli interessi in gioco, onde intercettazione si, ma a certe condizioni; altri – però in posizione di assoluta minorità – negano che sia legittimo questo strumento invasivo della privacy, anche perché, per le ragioni che qui di seguito esporrò, è improponibile il detto bilanciamento.
Io mi onoro appartenere alla schiera dei sostenitori di questa ultima tesi e ciò per due ragioni che mi sembrano decisive: in primo luogo – a ben comprendere la normativa, nazionale e soprannazionale, che disciplina la materia dell’intercettazione – la operatività di questa è contenuta in limiti assolutamente eccezionali, tali da dar ragione a quanti affermano che c’è da parte dei nostri magistrati l’abuso dello strumento (spesso per fini, occulti, di natura politica); in secondo luogo, non è possibile legittimare l’intrusione dell’autorità nella sfera privata delle persone adducendo ragioni di giustizia, perché la intercettazione è strumento della fase delle indagini, la quale non è processo, non è affermazione di giustizia, ma ancora prima che si possa elevare una accusa. In altri termini, il raffronto corre tra il principio costituzionale di tutela della vita privata della persona e l’indagine poliziesca (che, ripeto, non è attività di giustizia, la quale spetta soltanto al giudice, se e quando è instaurato il processo).
Quanto ai limiti di ammissibilità dell’intercettazione, non mi pare un fuor di luogo richiamare l’art. 15 della Costituzione, che consacrando (dichiarandolo inviolabile) il principio della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, ne consente bensì la limitazione ma ad una doppia condizione: occorre, cioè, l’atto motivato dell’autorità giudiziaria e le garanzie stabilite dalla legge. Inoltre, bisogna richiamare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la quale prevede, al suo art. 8, il diritto di ogni persona al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, salvo che “l’ingerenza nell’esercizio di tale diritto sia prevista dalla legge ed in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o della protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Questo principio convenzionale, da tutti sottovalutato, se non proprio trascurato, nei commenti all’art. 15 della Costituzione e nella prassi giudiziaria, – nonostante sia entrato a far parte del nostro ordinamento giuridico con legge del 4 agosto 1955 -, è invece rilevanza per il problema della legittimità delle intercettazioni e per due ragioni: perché essendo legge dello Stato deve essere osservato ai fini della tutela della privacy e perché prevede che l’ingerenza dell’autorità nella vita privata e familiare possa avvenire legittimamente solo come misura necessaria per specifiche esigenze tassativamente indicate, tra le quali la prevenzione (non la repressione) dei reati.
Ora la materia è regolata dal codice di procedura penale (1988) che prescrive all’art. 267, tra l’altro, che l’autorizzazione (con decreto motivato) del giudice al pubblico ministero alla intercettazione è data quando sussistano “gravi indizi di reato e sia assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini”. Tuttavia è agevole osservare che tale disciplina non è conforme sia al principio costituzionale che a quello patrizio. Nella disciplina processuale l’intercettazione delle comunicazioni tra privati è strumento “investigativo” teso ad agevolare, nella fase anteriore al processo (l’indagine preliminare), la ricerca della prova della esistenza del reato ed ovviamente dell’autore di esso. Ma questo non ha nulla a che vedere con l’attività di prevenzione dei reati, prevista nell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (onde l’Italia potrebbe essere sanzionata dalla Corte di Strasburgo per la violazione dell’art. 8).
Ma, ecco una ulteriore problematicità: l’intercettazione è uno strumento processuale la cui utilità o necessità può emergere solo dopo che è stata attuata, quando, cioè, se ne potranno valutare le risultanze; intanto, però, il diritto della persona alla libertà e segretezza della propria sfera privata e quella dei suoi familiari è definitivamente compromesso; ed il danno è tanto più grave se poi risulterà che la persona è stata coinvolta ingiustamente, a volte pure temerariamente, nell’accertamento penale. Insomma prima si lede il diritto e poi si vedrà se l’intromissione nella sfera privata della persona era giustificata. Inoltre, l’intercettazione può ledere persona del tutto estranea all’indagine (come accadde a Scalfaro e Cossiga): evento questo assai frequente perché le conversazioni non sono soliloqui e non si svolgono sempre tra persone tutte indagate.
C’è un altro aspetto problematico delle intercettazioni delle comunicazioni tra privati ed è quello del “diritto al silenzio”. E’ previsto, infatti, che il sottoposto all’indagine ha facoltà di non rispondere all’interrogatorio; anzi, prima che abbia inizio l’interrogatorio, l’indagato deve essere avvertito della facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, salvo a quella sulle generalità (art. 64 del codice di procedura penale). Il diritto al silenzio risale al principio di civiltà giuridica, noto come “nemo tenetur se detegere” (nessuno è tenuto a far male a se stesso), è espressione del limite al potere dei magistrati, ma che può anche essere considerato quale strumento di difesa, specialmente in un processo penale a stampo accusatorio, nel quale l’imputato è assistito dalla presunzione costituzionale (art. 27), di non colpevolezza fino alla condanna definitiva; per cui incombe sul pubblico ministero l’onere di provare l’accusa, mentre l’accusato può restare muto per tutto il corso del processo o, addirittura, restarvi assente. Con l’intercettazione il diritto al silenzio è fraudolentemente aggirato e, pertanto, non dovrebbe formare mezzo di prova, come invece avviene con la disposizione per la quale le trascrizioni delle intercettazioni sono inserite nel fascicolo per il dibattimento (art. 268 del codice di procedura penale). Insomma, il risultato dell’intercettazione assume il connotato di confessione, fraudolentemente ottenuta, di colpevolezza. Il che è inaccettabile, anzi è ripugnante. Si dirà che in tutti i Paesi civili è ammessa la intercettazione ed è vero, ma in quei Paesi i risultati della intercettazione non hanno valenza di prova nel giudizio, anzi non vi entrano affatto ma servono agli inquirenti unicamente per stabilire se vi siano elementi idonei ad elevare un’accusa.
Ultimo profilo problematico, ma più inquietante, delle intercettazioni è quello relativo alla diffusione intempestiva di notizie relative, coperte da segreto investigativo. La gogna della persona e dei suoi familiari, nonché il disdoro ingiustificato di persona estranea all’accertamento penale è effetto inammissibile, che appaga solo la curiosità morbosa dell’opinione pubblica (che è però negli intendimenti dei giacobini in toga).
Insomma, i pubblici ministeri che abusano dello strumento della intercettazione, ma secondati dai Gip, si comportano come i rivoluzionari francesi che al grido “noi non vogliamo giudicare il Re, vogliamo ucciderlo” proclamavano l’inutilità del giudizio, che è invece baluardo di difesa dell’uomo, risalente all’antichissimo principio secondo cui la reità postula il giudice (nulla poena sine judicio). Anche durante la cosiddetta rivoluzione giudiziaria del ’92-’93 del secolo scorso, quando il circuito media-pubblici ministeri funzionava in modo assai efficiente, si sostenne che il giudizio era superfluo dal momento che dall’indagine dei pubblici ministeri la colpevolezza era emersa nel novanta per cento dei casi (erano parole del mitico procuratore meneghino Francesco Saverio Borrelli): si attribuiva alla indagine preliminare – che è attività di polizia valenza del giudizio. Non importava che i metodi engagé dell’inchiesta non fossero ortodossi, come accertò la delegazione internazionale dei diritti dell’uomo, venuta apposta in Italia richiamata dal clamore della gloriosa (si fa per dire) rivoluzione giudiziaria e dalla fama di Antonio Di Pietro, novello Torquemada, che si avviava a diventare il “giudice” più amato dagli italiani. Potenza di certa stampa, non solo perché elevava a giudice l’accusatore, ma perché attribuiva a tutti gli italiani un sentimento che era di una parte degli italiani (quelli di sinistra).
Attenzione, la storia (una brutta storia) si sta ripetendo. I mostri sono alle porte, per il sonno della ragione.
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