Il disegno di legge sulla giustizia si occupa – oltre che dell’assetto giudiziario anche dei rapporti tra polizia giudiziaria, Ministro di giustizia e magistratura -, dello spinoso problema dell’obbligatorietà dell’azione penale, nonché della impugnabilità delle sentenze; tutti temi che modificano punti specifici della Costituzione. Precisamente:
1 – L’articolo 109 della Costituzione, per il quale “L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”, è sostituito dall’art. 12 del disegno di legge del seguente testo: “Il giudice e il pubblico ministero dispongono della pg secondo le modalità stabilite dalla legge”. Non più direttamente, quindi, ma indirettamente, secondo quanto stabilirà, discrezionalmente, il legislatore. Bisogna ricordare in proposito che la disposizione costituzionale era sta tradotta nel codice di procedura penale nel senso della subordinazione della polizia ai magistrati (art. 59 del codice di procedura penale del 1988 ed, analogamente, l’art. 220 del codice previgente).
Evidentemente questa subordinazione era una forzatura del testo costituzionale perché una cosa è “disporre direttamente” della polizia giudiziaria da parte dell’autorità giudiziaria, altro è la subordinazione della polizia giudiziaria all’autorità giudiziaria, subordinazione che è tesa ad escludere ogni intervento dell’autorità politica nella conduzione delle indagini, più specificamente del Ministro di giustizia: è la conferma della volontà di conservare l’indipendenza del pubblico ministero come stabilito da Palmiro Togliatti con il decreto (illegittimo) sulle “guarentigie della magistratura” del 31 maggio 1946 (che, tuttavia, mantenne la vigilanza ministeriale sulle funzioni).
Questa scelta non poteva essere condivisa perché, a prescindere dal fatto che l’indipendenza del pubblico ministero dalla direzione ministeriale è assolutamente priva di logica istituzionale, eliminare l’autonomia funzionale della polizia giudiziaria significa depotenziare la lotta alla criminalità che nella polizia trova il primo e più efficace contrasto.
Bene, pertanto, il disegno di legge in questione, abbandonando l’errata interpretazione dell’art. 109 della Costituzione datane dalle norme processuali, stabilisce bensì il potere dell’autorità giudiziaria, di disporre della polizia giudiziaria, ma secondo limiti e modalità di legge.
2 – L’art. 13 del disegno in questione sostituisce l’art. 110 della Costituzione, il quale così dispone: “Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura (art. 105 Cost.), spettano al Ministro l’Organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Il testo nuovo prevede: “Ferme le competenze dei Consigli superiori della magistratura giudicante e requirente, spettano al Ministro della giustizia la funzione ispettiva, l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Il Ministro della giustizia riferisce annualmente alle Camere sullo stato della giustizia, sull’esercizio dell’azione penale e sull’uso dei mezzi di indagine”.
Sorvolo sulla “funzione ispettiva” – che pure meriterebbe una riflessione, posto che la norma costituzionale non contiene alcun elemento atto ad individuare le linee della disciplina -, sorvolo altresì sulla competenza del Ministro ad informare il Parlamento sullo stato della giustizia e dell’accusa (che è sostitutiva dell’analoga Relazione del Presidente della Corte di Cassazione all’apertura dell’anno giudiziario): il punto di rilevante interesse è se l’indicazione delle competenze ministeriali sia tassativa e perciò provi l’esclusione del Ministro dalla direzione (o anche dalla vigilanza) delle funzioni di pubblico ministero. Il problema si poneva già prima: a mio avviso l’articolo 110 in questione, come quello che ne dovrebbe prendere il posto, esclude la competenza ministeriale in ordine alle materie di spettanza del Csm (e che sono indicate nell’art, 105 della Costituzione, vale a dire: assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, mentre i provvedimenti disciplinari dovrebbero essere di spettanza dell’apposita Corte di disciplina) e perciò, non potrebbe ritenersi esclusa una eventuale ed auspicabile direzione ministeriale delle funzioni di pubblico ministero.
Si potrebbe opporre che, secondo l’art. 5 del disegno in parola, l’ufficio del pubblico ministero dovrà essere organizzato in modo che ne siano assicurate autonomia e indipendenza: resta però da vedere quali saranno contenuti e limiti dell’indipendenza, posto che non è ripetuto quanto è previsto per i giudici, cioè la “soggezione soltanto alla legge” e “indipendenza da ogni potere” (art. 3 decreto). Resta perciò, questo, un problema aperto.
Tralascio il tema dell’impugnabilità delle sentenze, perché richiede molto spazio, e mi occupo di un tema di grande rilevanza costituzionale.
3 – Altra norma costituzionale toccata dal disegno di riforma è quella che prescrive l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (“Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale), che verrebbe modificata con l’aggiunta “secondo i criteri stabiliti dalla legge”. A giustificare il principio di obbligatorietà si è più volte detto che esso altro non è che espressione dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge penale. La verità è che l’abuso dell’archiviazione delle notizie di reato durante il periodo fascista (soprattutto per i casi di violenza) avevano indotto i Padri costituenti ad adottare il principio di obbligatorietà onde evitare gli abusi da parte del pubblico ministero.
Sennonché questo principio di obbligatorietà presuppone un diritto penale minimo, cioè compatibile con un sistema a tasso di criminalità normale (i cosiddetti reati naturali), non regge, quando si verifica – come si è invece verificata una esplosione di criminalità che ha comportato un gigantismo del diritto criminale: le annuali statistiche dicono che non più del 20-30% dei reati commessi entra nell’input del lavoro delle Procure, il rimanente o rimane criminalità sommersa o va a finire nell’enorme calderone delle archiviazioni, per essere ignoti gli autori. Questa deprimente realtà indusse nel 1987 il Consiglio dei Ministri europei ad emettere un “raccomandazione” agli Stati membri, di adottare il principio di opportunità dell’azione penale, ovvero di prevedere strumenti che andassero in questa direzione.
Da noi che, come già detto la obbligatorietà dell’azione penale è meramente teorica, pura ipocrisia ufficiale, non se ne fece niente: accogliere la raccomandazione avrebbe significato riportare il pubblico ministero sotto la direzione del Ministro di giustizia, che è il solo organo titolare della politica criminale, legittimato a stabilire quali reati perseguire o perseguire prioritariamente.
E, così l’azione penale è restata discrezionale di fatto, gestita da burocrati senza responsabilità politica, peraltro politicizzati, onde la discrezionalità del pubblico ministero spesso dissimula fini politici o, addirittura, interessi di bottega politica.
Ora il disegno di riforma prevede la soluzione del problema prevedendo delle “linee-guida” parlamentari (la legge), ma tale riforma non appare condivisibile perché il contrasto alla criminalità deve tener conto anche che il fenomeno criminale non è uniforme e che, anzi, appare diversificato a seconda delle realtà sociali nelle quali si manifesta. Perciò il contrasto alla criminalità deve essere di competenza del Ministro di Giustizia, non del Parlamento, che si esprime necessariamente in termini generale (tuttavia il Parlamento eserciterà il controllo sull’attività del Governo).
Ma ciò non è gradito alla corporazione delle toghe, che difendono il principio di obbligatorietà, consapevoli che il principio opposto (discrezionalità/opportunità) porta necessariamente il ritorno del pubblico ministero sotto la direzione ministeriale. E si oppongono persino all’intervento regolatore della legge, atteggiamento che contrasta con l’interesse generale.
Una volta, nel regime monarchico, le toghe erano subalterne al potere politico, ora si è giunti al punto che il potere politico è subalterno alle toghe. Così, surrettiziamente, la nostra democrazia liberale si è trasformata in una democrazia giudiziaria, che è stata definita (Panebianco) preludio a regime illiberale e autocratico.
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