LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE

1 – Il disegno costituzionale sulla riforma della giustizia, dopo aver stabilito, che “i magistrati si distinguono in giudici e pubblici ministeri” (che è l’ordine giudiziario fascista), prevede che la legge dovrà assicurare la “separazione delle carriere” dei due soggetti pubblici del processo. Ora, a prescindere che il demandare al legislatore ordinario la disciplina della separazione senza stabilirne alcun criterio, significa affidagli la scelta discrezionale del tipo di separazione – cioè una separazione “forte” (concorso separato, divieto di transitare da un ruolo all’altro, eccetera), oppure una separazione “debole” (unico concorso, possibilità, sia pure a determinate condizioni, di passare dal ruolo dei giudici a quello dei pubblici ministeri e viceversa, eccetera) -, resta insuperabile l’obiezione secondo cui l’unità di giudici e pubblici ministeri (tutti caballeros e colleghi), rende illusori, tra gli altri, due principi cardini del giusto processo, vale a dire: la parità tra accusa e difesa (che postula anche la pari distanza delle parti dal giudice) e la terzietà del giudice (che ne postula la neutralità rispetto agli interessi dell’una o dell’altra parte, fosse anche il pubblico ministero).

La terzietà del giudice, è un valore troppo grande per essere barattato con l’interesse all’unità dei magistrati, è in gioco l’interesse della collettività ad avere un giudice al di sopra delle parti e, quindi, al di sopra (non contiguo), del pubblico ministero: l’interesse ad un giudice credibile.

Del resto la giurisdizione penale ha motivo di esistere nella difesa della persona dalle pretese del potere e, pertanto, dello Stato-amministrazione che persegue la persona tramite il pubblico ministero. Il giudice indipendente ed imparziale è cardine del giusto processo, le cui linee sono state consacrate sia nell’art. 111 della Costituzione che nell’art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (1950) ed è il portato del liberalismo e del costituzionalismo occidentale.

Ed è una pretesa assurda, di origine comunista, che non ha l’eguale nei Paesi evoluti, che il Ministro di giustizia non debba dirigere il pubblico ministero, che è un suo organo. Il disegno di legge prefigurando il pubblico ministero tra gli “organi della giustizia” (art. 2), prostituisce il valore stesso della giustizia, che è funzione imparziale e neutrale: se il pubblico ministero impersona l’accusa e chiede la condanna dell’imputato ma il giudice assolve, e viceversa, chi fa giustizia è il giudice, e perciò è lui organo di giustizia, non il pubblico ministero. Il quale poteva essere definito organo di giustizia sotto il codice di procedura penale previgente, perché all’epoca aveva alcune funzioni giurisdizionali (ad esempio: potere di emettere provvedimenti sulla libertà dell’imputato, istruttoria sommaria, eccetera), tanto che ancora oggi nell’immaginario collettivo i suoi componenti sono considerati giudici; persino nei programmi televisivi si appella giudice chi è solo un procuratore (ad esempio: “Il giudice e il Commissario”, “Il giudice Mastrangelo” impersonato da Diego Abatantuono).

Con il codice di procedura penale attuale, vigente dal 1988, a stampo accusatorio, il pubblico ministero è configurato, esattamente come mera parte processuale e non più come collaboratore del giudice (cioè non ha più alcuna funzione giurisdizionale); tuttavia la confusione (ad arte?) continua.

Ed allora sarebbe stato necessario uscire dai falsi e ingannevoli luoghi comuni e configurare il pubblico ministero per quello che è per sua natura (ontologicamente), vale a dire: l’organo del potere esecutivo che persegue in giudizio quelli che egli reputa aver commesso il reato (ma che deve chiedere l’assoluzione dell’innocente, non perché organo di giustizia, bensì in adempimento del dovere di imparzialità della pubblica amministrazione, sancito dall’art. 97 della Costituzione).

2 – Coerentemente alla prefigurazione della separazione delle carriere, il disegno di legge modifica il Csm, dividendolo in due: una sezione per la magistratura giudicante (cioè per i giudici), l’altra per la magistratura requirente (cioè per i pubblici ministeri). L’innovazione è da condividere soltanto perché potrebbe eliminare il pericolo di un condizionamento del giudice da parte del pubblico ministero in quanto componente dell’unico Csm.; ma il pericolo, cacciato dalla porta, potrebbe rientrare dalla finestra: infatti permanendo il vincolo di colleganza tra giudici e pubblici ministeri e, soprattutto, permanendo la politicizzazione nella magistratura, è vano attendersi il risultato che con la separazione si vuole raggiungere. Cane non morde cane: il collegamento potrebbe emergere in ragione dell’appartenenza politica dei singoli, per cui potrebbe verificarsi uno scambio di favori tra i componenti delle due sezioni.

3 – Anche la Corte di disciplina, nuovo organo preposto ai provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, si divide, come il Csm, in due sezioni, l’una per i giudici, l’altra per i pubblici ministeri: anche per questa novità va segnalato il pericolo per il quale il nesso di colleganza e la politicizzazione dei magistrati lascia intravedere nella riforma una operazione meramente gattopardesca (tutto cambi perché tutto resti come prima).

 

Se il potere politico non entra nell’ordine di idee di un mutamento radicale dell’assetto giudiziario, nel senso prefigurato dalla Costituzione – magistratura e pubblico ministero, due ordini distinti e separati, essendo espressioni di due poteri diversi, tra loro inconciliabili -, si resterà impaniati nella inutile separazione delle carriere nell’ambito di un unico ordine: costruzione, questa, di carattere meramente burocratico (appunto: di carriere impiegatizie).

Basti ricordare che la carriera separata di giudice e di “ufficiali del Governo” (componenti l’ufficio di pubblico ministero) era prevista già nel 1859, nello ordinamento giudiziario del Regno sardo, divenuto, poi, ordinamento giudiziario del Regno d’Italia, e che soltanto nel 1890 le due carriere vennero riunite. Nella Relazione del Ministro Grandi all’ordinamento giudiziario fascista del 1941 era chiaramente enunciata la ragione fondamentale della riunificazione: “Sono ragioni di ordine politico, in quanto superata la distinzione, fondamentalmente erronea, tra i ‘poteri dello Stato” e subentrata la concezione di una differenziazione di funzioni, non sarebbe più concepibile nello Stato moderno una netta separazione tra magistratura requirente, partecipe della funzione esecutiva, e magistratura giudicante, da quella nettamente distinta…”

Ovviamente, ripristinata con la Costituzione repubblicana, la tradizionale divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giurisdizionale), connotato essenziale del costituzionalismo moderno (dopo lo Stato assoluto), non ha più senso la separazione delle carriere, perché si tratta di separare la giurisdizione dal potere esecutivo, rappresentato nel processo dal pubblico ministero.

Conservare la magistratura quale potere unico, formato da giudici e pubblici ministeri – sia pure a carriere separate – significa stravolgere l’architettura costituzionale della separazione dei poteri. Con la conseguenza non solo di mantenere un potere sovraccarico (il potere di accusa e quello giurisdizionale), ma di mantenere un potere sostanzialmente incontrollato, posto che il pubblico ministero – che istituzionalmente preposto a vegliare alla “pronta e regolare amministrazione della giustizia (art. 73 dell’ordinamento giudiziario) è assai poco credibile se è pappa e ciccia coi giudici: in tal modo neppure il Governo può rispondere al Parlamento (e quindi al popolo) dell’anomalo funzionamento della giustizia, posto che è stato illegalmente privato dell’organo (il pubblico ministero) attraverso cui può esercitare il controllo sui giudici.

Chi conosce la storia della istituzione e del cammino del pubblico ministero in questa istituzione sa bene, che questi da semplice avvocato del Re (procuratore del Re, ora della Repubblica) è diventato organo dello Stato preposto alle tre funzioni principali: a) della sorveglianza dei cittadini al fine della osservanza delle leggi da parte dei cittadini o di chiunque si trovi nel territorio nazionale, b) della sorveglianza sulla amministrazione della giustizia, c) del promuovimento della repressione dei reati (l’azione penale).

Il fatto che il pubblico ministero si trovi istituito presso gli organi giurisdizionali (Tribunali e Corti) si giustifica con l’interesse dello Stato alla sorveglianza dei giudici, che sono indipendenti (altrimenti non sarebbero giudici) e irresponsabili (perché burocrati e non eletti). Il pubblico ministero era metaforicamente detto l’occhio del Governo sui giudici.

I magistrati ne sono tanto consapevoli dell’anomalia del loro assetto da dire che è un assetto di avanguardia. Peccato però che il nostro inefficiente sistema di giustizia di avanguardia non sia seguito da nessun Paese occidentale! Il nostro sistema è invece di retroguardia, da socialismo reale, voluto dal comunista Palmiro Togliatti già nel 1946, quand’era Ministro di giustizia.


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