La magistratura è una istituzione (ordine) burocratica, cioè composta da impiegati dello Stato, assunti a seguito di concorso, salva la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari, nonché di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, di professori universitari nelle materie giuridiche e di avvocati che abbiano esercitato la professione per almeno quindici anni (art. 106 Cost.). Per questa parte la Costituzione ha avuto scarsa applicazione: solo nel 1998, con legge n. 303, fu disciplinato l’accesso di giudici laici in cassazione in un numero non superiore ad un decimo dell’organico della Corte: la nomina avviene con decreto del presidente della Repubblica “su designazione del Csm”. Anche qui, che io sappia, l’applicazione della legge è nulla. Eppure l’apporto di magistrati onorari in cassazione servirebbe, oltre che a rendere credibile questa istituzione oggi ai minimi termini, a rendere più ricca e meno autoreferente la cultura giudiziaria.
Pertanto, per la magistratura composta in maggioranza da magistrati burocrati, non vi può essere responsabilità politica. In passato si son prospettate diverse ipotesi per cercare di conciliare l’indipendenza dei magistrati con la responsabilità degli stessi, allo stato inesistente: alla fine si è detto che è l’opinione pubblica la via più idonea a responsabilizzare i magistrati. Ma questa opinione pubblica, male informata o addirittura disinformata, non pare all’altezza di giudicare.
Se non può sussistere la responsabilità politica dei magistrati burocrati è ipotizzabile, in teoria, la responsabilità civile, cioè l’obbligo del risarcimento del danno prodotto dal magistrato, nell’esercizio della sua funzione, alle persone coinvolte a qualsiasi titolo nell’accertamento giudiziario. Si ricorderà che nel novembre 1987 venne celebrato il referendum popolare sulla responsabilità civile dei magistrati che molti – ovviamente i magistrati – ritenevano non fosse possibile, trattandosi – dissero – di funzione sovrana (si rifacevano all’antica teoria, secondo cui il Re non sbaglia mai). Ma con la nuova Carta repubblicana (art. 28) questa teoria non vale più, tanto che il quesito referendario sulla responsabilità dei giudici fu ritenuto ammissibile dalla Corte Costituzionale.
L’esito referendario fu quasi plebiscitario: si disse che il popolo aveva processato la magistratura ritenendola responsabile dell’anomalo funzionamento della giustizia, soprattutto per i tempi biblici delle procedure e per la “libidine delle manette”. Seguì una legge – la n. 117/1988 – che stabilì bensì il diritto della persona al risarcimento del danno subito ad opera del magistrato che “nell’esercizio delle funzioni abbia agito con dolo o colpa grave, ma pose una serie di limitazioni a tale diritto da renderlo quasi nullo. Basti dire, a titolo di esempio, che non è ammesso risarcimento in ordine “all’attività di interpretazione della legge ed a quella di valutazione dei fatti e della prova”, che è quasi tutta l’attività dei magistrati. Si comprende, quindi, come sia nel vero l’opinione pubblica per la quale i magistrati non pagano mai e quella sulla responsabilità è una legge truffa.
Anche per i danni cagionati all’Erario, benché con dolo o colpa grave, il magistrato è esente da responsabilità patrimoniale, salve alcune eccezioni, delle quali non mette conto parlare. Per le azioni temerarie del pubblico ministero a rimetterci sarà la collettività su cui, in definitiva, grava il carico del processo quando è a conclusione assolutoria.
L’art. 16 del disegno di legge in questione prevede, però, che i magistrati siano direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato (la regola era già prevista all’art. 28 della Costituzione, come sopra ho detto, ma è specificato, con la previsione dell’art. 16, che v’è responsabilità diretta dei magistrati (laddove con la legge n. 117/88 la responsabilità è assunta dallo Stato, salvo rivalsa nei confronti del magistrato che ha sbagliato); e v’è responsabilità, altrettanto diretta, anche per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita liberazione della libertà personale).
Un problema – che però il disegno non prospetta, ma che è di enorme rilevanza – è rappresentato dalla competenza ad accertare la responsabilità: oggi vige una competenza domestica, cioè il magistrato che ha sbagliato è giudicato da un suo collega e tutti sappiamo il valore del giudizio di questo tipo. Sarebbe stato necessario il giudice terzo, per rispettare il valore della giurisdizione, magari con la istituzione di un tribunale laico ad hoc.
In passato si era sostenuto che il magistrato non dovesse rispondere in via civile (risarcimento del danno causato alle persone) ma in compenso dovesse rispondere in via disciplinare: secondo una legge del Ministro di giustizia, Orlando (del 1905, se ben ricordo) la magistratura doveva essere governata “con mano di ferro in guanto di velluto”. Ma oggi non è più così. La disciplina di ferro è soltanto un pallido ricordo, sia perché è stato smantellato l’apparato burocratico in forza del quale funzionava una gerarchia capace di evitare eventuale arbitri dei singoli magistrati, sia perché il potere disciplinare è stato sottratto alla competenza ministeriale ed affidata al Csm. Per dare l’idea di cosa sia diventato il controllo sulla magistratura (che non è più meritevole dell’”Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, di Piero Calamandrei) è istruttivo il saggio di un magistrato (Caferra), dal titolo “Il magistrato senza qualità”, nel quale sono indicati come “idealtipi negativi”, il magistrato burocrate, il magistrato narcisista, il magistrato uomo di potere che prostituisce la sua funzione per interesse di carriera o di politica.
E, quanto al funzionamento della disciplina, basta leggere il ben documentato saggio di un giornalista (Stefano Liviadotti, dell’Espresso), dal titolo “Magistrati, l’ultra casta”, dove si mette a nudo questa verità: il magistrato che sbaglia non paga mai, nemmeno in via disciplinare (in particolare vedasi il capitolo “Gli impuniti”).
Ma, al là di quanto appena detto, è da rilevare che, quand’anche la disciplina funzionasse in modo corretto – il che sarebbe già un miracolo -, non potrebbe assicurare dal rischio dell’esercizio arbitrario del potere e ciò per il semplice motivo che il controllo del magistrato in sede disciplinare non può comunque estendersi fino a censurare il contenuto dei suoi provvedimenti.
E’ vero, però, che la modifica apportata all’ordinamento giudiziario (decreto legislativo, n. 109 del 2006) ha prefigurato come illecito disciplinare il “perseguimento di fini estranei ai doveri e alla funzione giudiziaria”, oltre che la “grave violazione di legge per ignoranza o negligenza”, ma è pur vero che siffatta previsione legislativa è restata sulla carta, come le famose “grida” di manzoniana memoria: la ragione è sempre la stessa: la non affidabilità della giurisdizione domestica.
In conclusione – ed è deprimente – i magistrati sono esenti da qualsiasi responsabilità, e quand’anche abbiano operato con dolo o colpa grave; quasi che il decreto di nomina imprimesse loro il crisma della superiorità e della infallibilità. Il già nominato Calamandrei affermò nel detto saggio: “non è onesto, quando si parla dei problemi della giustizia, rifugiarsi dietro la comoda frase fatta di chi dice che la magistratura è superiore ad ogni critica e ad ogni sospetto, come se i magistrati fossero creature sovrumane, non toccate dalla miseria di questa terra. Chi si appaga di queste sciocche adulazioni, offende la serietà della magistratura: la quale si onora non coll’adularla, ma coll’aiutarla sinceramente ad essere all’altezza della sua missione”.
Oggi, a più di mezzo secolo, con una magistratura tesa a mantenere il suo abnorme potere, queste parole suonano false e comunque inutili.
Ma l’opinione pubblica deve destarsi dal sonno profondo (che genera mostri) e prendere parte alla conoscenza dei problemi della giustizia per evitare che la nostra democrazia scada, da sistema liberale a democrazia giudiziaria, cioè diventi la Repubblica delle toghe.
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