ANNIVERSARIO DI UN PAZZO MATRIMONIO – di Angela Piscitelli

“Oggi la gente sembra guardare alla vita come a una speculazione. Non è una speculazione, è un sacramento. Il suo ideale è l’amore, la sua purificazione è il sacrificio”
Oscar Wilde

t’è piaciuta, t’è piaciuta/tienatella cara cara/ t’a purtaste oio municipio sotto o braccio insieme a te/ mo ti vedo afflitto e stanco, su coraggio, uè Giuvà”/ si o mellone è asciuto janco mo cu cchi t’ha vuò piglià/ papparapàppa… pappà!
Gegè di Giacomo.

Estate 1991. Da un anno potevo fregiarmi del titolo di assessore a tutto nel villaggio, trionfalmente eletta prima donna nella storia del paese. Il magro bilancio rendeva pensosa la giunta all’approssimarsi delle feste di Ferragosto. Il solito palo della cuccagna? La sagra della polenta? La corsa con la “mummara” sulla testa?

– Senza soldi non si cantano messe! – diceva mestamente il sindaco. Cosi’ ci capitava abbastanza spesso di cantar messa a nostre spese, per render meno grigio l’orizzonte e più gaia la vita del paesello.

Fu in quei frangenti amministrativi che ricevetti la telefonata di un amico più matto di me, che mi propose una fantastica serata musicale con nientepopodimenochè la filarmonica di Craiova al completo, per un prezzo irrisorio e “purchè li inviti a cena”. I musicisti rumeni erano soliti all’epoca arrotondare il loro magro stipendio di stato con tournées nei paesini del vicino Molise.

Inutile sarebbe stato proporlo al consiglio comunale, per vuotezza di cassa. Chiedere in tutta fretta un contributo regionale era fuori questione: la “guldura” dalle nostre parti è la sagra della salsiccia e della scamorza. Che fare?

Fu così che a sera, ponza e riponza, distogliendo il mio compagno dal suo solito libro di filosofia, sparai nella quiete del talamo irregolare la seguente proposizione interrogativa: “Perchè non ci sposiamo?” Lui abbasso’ gli occhiali che gli caddero su Kant e mi guardo’: “Perchè no?” disse, “ma come ti è venuta questa idea?”. “Perchè la filarmonica di Craiova avrebbe una serata libera, e allora si potrebbe fare una festa. Ma una festa senza motivo non ha molto senso”.

“Già”. rispose lui. Che voleva dire “sì.”

L’indomani arrivai giuliva sul posto di lavoro: “Devi sposarci” dissi al sindaco, “per il 12 di agosto. Organizza, cosi’ faccio venire l’orchestra”.

Dovete sapere che nei paesi del profondo sud i matrimoni civili non si celebrano. I sindaci non hannno la minima idea di come si faccia, e figurarsi un sindaco che deve celebrare il matrimonio del suo assessore, che poi si sposa con il suo castellano. Il poveretto entro’ in panico, manco si dovesse sposare lui, e ancor più avendo ascoltato le motivazioni e modalità di questo frettoloso matrimonio. Ma aveva abbracciato la croce di avermi in giunta e la portava con grande dignità. Inoltre, poichè di mestiere faceva (e fa) il cuoco, promise docile: “Ti faro’ la trippa”.

Furono venti giorni frenetici. Il passa parola sull’evento aveva messo il paese in subbuglio. L’appplicato si applicava ai codici, i giardinieri non risparmiavano neanche una fogliuccia d’ortica, il sindaco studiava. Sul matrimonio, nemmeno una parola: la locandina nei due bar nemici recitava semplicemente: “12 agosto – Filarmonica di Craiova in piazza – segue cena al castello per tutti. Lotteria. In palio un prosciutto, un ferro da stiro a vapore ed una bottiglia di Asti.”

La cerimonia, per ovvie ragioni di opportunità, doveva essere strettamente riservata e pertanto assolutamente sottaciuta. L’intera compagine comunale rispettava la consegna del silenzio, dalla quale pero’ era esentata la mimica facciale. Il sole ci metteva del suo, e le vecchiette al mio passaggio ammiccavano dietro il tombolo: “Die te benedica ca sci brava”. A me, avevano dato sempre il “tu” mentre al promesso era riservato, per antica consuetudine, il “voi” ed il titolo di “Don Levnardi”. Il plurale, credo per accrescerne la valenza simbolica.

Anche la mattina del 12 puntuale fui alla mia scrivania. Avevo passato il pomeriggio precedente con pochi volenterosi a fabbricare lasagne per 500 persone, a siringare le mellonesse con il marsala e tagliare caciocavalli. Ma alle 12 in punto il sindaco m’ intimo’ di sgomberare il campo: “Scio’, devo preparare”. Sudava.

Alle 17 quatti quatti, sposi con figlia, testimoni con coniugi, fotografo, consorte e le maestre del villaggio fecero il loro ingresso furtivo nella sede del comune. Nella sala del consiglio li attendeva un gigantesco trionfo di fiori freschi in mio onore dai quali faceva capolino, seminascosto tra le fresche frasche e l’applicato, il sindaco, compunto nella sua tenuta di gala scelta a posta per l’occasione: camicia hawaiana multicolore con apposta fascia tricolore.

L’innaturale silenzio di nasi all’insù e dietro le tapparelle semiabbassate fu rotto da un fragoroso applauso allorchè il primo cittadino, dopo aver per tre volte sbagliato, nome, età degli sposi, formula, ci dichiaro’ con sollievo marito e moglie. Giusto in tempo per gettare il bouquet alle “zite”, e correre in piazza ed accogliere l’autobus dei musicisti.

Scesero ordinatamente, ciascuno con il suo strumento. Indossavano abiti da sera un po’ lisi, di trent’anni prima, tirati a lucido. E mentre il castellano fresco sposo si avviava al maniero per sovraintendere ai preparativi della grande abbuffata, la sposa-assessore, in grazioso abitino a fiori e tacchi alti, si diede da fare con il resto della giunta per preparare il palco.

Alle sette in punto, precedute da un grande inchino del direttore, suonarono le prime note dell’inno nazionale. Poi, dopo un attimo di silenzio, mentre il cielo si preparava al più infuocato dei tramonti, l’aria fu invasa dalle prime note della Quinta di Beethoven.

“Alla musica dolce di Orfeo, cessava il fragore del rapido torrente, e l’acqua fugace, obliosa di proseguire il cammino, perdeva il suo impeto … Le selve inerti si movevano conducendo sugli alberi gli uccelli; o se qualcuno di questi volava, commuovendosi nell’ascoltare il dolce canto, perdeva le forze e cadeva … Le Driadi, uscendo dalle loro querce, si affrettavano verso il cantore, e perfino le belve accorrevano dalle loro tane al melodioso canto (…)”. (Seneca)

La piazza, all’inizio semideserta, prese a riempirsi. Tutti arrivavano impacciati, con aria indifferente, come diretti altrove, e si fermavano. Alla fine erano occupati tutti gli usci, i muretti, le scale. Qualche vecchietto si toglieva il cappello, a qualcuno scappava una lacrima. Per due ore la vita del paesello s’arresto’, incantata, inebriata dalla musica.

Infine tutti in piedi a battere mani al ritmo gioioso della marcia di Radetzky. Doppio bis, doppio applauso, tutti a mettere in ordine la piazza, cittadini, sposi, consiglio, musicisti e via, in corteo verso il castello illuminato con le torce. Un bel piatto di lasagna, e di trippe fumante, fu offerta anche ai turisti giunti alla ricerca dell’antico inn una notte d’estate. Stelle cadenti ed organetti, fiasche di vino e zomparelle. Prosciutto, ferro da stiro e spumante furono vinti in doppia copia dato che mia figlia, che aveva sette anni, fortemente contraria al matrimonio dei genitori riusci’ a vendere i biglietti ed anche le matrici. I visitatori ebbero accesso perfino alla “stanza degli sposi”, minuziosamente preparata da Domenichina, vestale del castello, che aveva riesumato dalla cassapanca il lenzuolo celeste in seta della trisavola (che fu rimosso a fine festa, prima che gli attempati sposi potessero profittarne). All’alba si spensero gli ultimi canti gioiosi: “evviva gli sposi”.

Ancora nelle viuzze del borgo si favoleggia della magica bianca notte di vent’anni fa. Certo, bisognerebbe che ogni assessore fosse fornito di un compagno tanto amabile come il mio da prestarsi a dire il suo “si” al servizio della promozione culturale e turistica del mezzogiorno… Possiamo suggerirlo a Tremonti, non si sa mai. Magari risolviamo un problemaccio e “vissero tutti felici e contenti”.

Angela Piscitelli, 13 agosto 2011
Ripreso da Zona di frontiera (Facebook) – zonadifrontiera.org (Sito Web)


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