La mente mi torna ancora e sempre, come falena alla fiammella, al tema della rovina del nostro Mezzogiorno, che fu uno dei luoghi più “umanamente belli” d’Italia e forse del mondo.
Dal primo dopoguerra ad oggi, il Meridione non ha fatto che predire, come un sismografo funzionante in forte anticipo, i disastri fisici e morali dell’Italia tutta. Le avventure e disavventure della politica, della magistratura, delle amministrazioni comunali, vi hanno fatto da preludio e poi da controcanto allo sfascio generale. Si possono prendere ad esempio infine, a degno coronamento dell’opera, i pentiti della mafia, dei quali è simbolo espressivo il volto inespressivo, tra gelido e demenziale, d’un Ciancimino; le gesta d’un Woodcock; quelle del De Magistris, sindaco ormai famoso per le sue “magistrali” stramberie tra le quali primeggiano le nuove “cinque giornate di Napoli”, fuffe e farlocche come le prime “quattro”. Voglio dire che tutto, tra noi meridionali, è fuori norma, guai compresi.
Uscita dalla guerra danneggiatissima, ma ancora colma di identità e di carattere, Napoli ha finito poco a poco col divenire una specie di cadavere, una immagine sbiadita di quel che fu una volta. Il Meridione, e Napoli in particolare, avevano una vocazione naturale “bella e fatta”, quella che oggi si comincia troppo tardi a riconoscere ed a rimpiangere: una esemplarità dell’ambiente naturale e storico-monumentale che destinava la regione ad un sontuoso turismo colto. Destino spezzato in due e gettato nel cestino della carta straccia, senza pensarci due volte, dalla italica imbecillaggine collettiva.
La rovina inizio’, come spesso accade, con alcune buone – anzi ottime – intenzioni: bisognava rimboccarsi le maniche per debellare la piaga della endemica miseria. Tenendo conto della centralità mediterranea della regione, si penso’ di stimolarne in grande l’industrializzazione. Da questo “teorema”, che sembro’ di lampante logicità, inizio’ la rovina. Invano pochi chiariveggenti diedero l’allarme: l’industrializzazione artificialmente stimolata (artificialmente: anche per l’assenza di facili vie di comunicazione e per la quasi geograficamente imposta carenza di infastrutture) avrebbe depresso i valori naturalistici, monumentali e culturali del Meridione, andando a scapito della conservazione della tradizioni e, di conseguenza, di una illuminata politica turistica. Se turismo deve correttamente significare anche apprendimento e contemplazione di caratteri ignoti o nuovi dell’universale “umano”, ebbene qui s’è trattato d’un vero e proprio umanicidio, perché il Meridione d’Italia possedeva straordinarie ricchezze elencabili non soltanto sotto la categoria del “bello”, ma anche sotto quelle dello “straordinario”, dell’”inaudito”, del “mai vistro altrove”.
Furono proprio la stampa migliore, i giornali e le pubblicazioni più evolute sia dal punto di vista politico che da quello della coscienza civile, a iniziare paradossalmente la propaganda filistea cui sopra accenniamo. Se è vero che di buone intenzioni è lastricata la via che mena all’inferno, ebbene questo fu il caso. Si senti’ gente colta esclamare: “Uffa, basta monumenti e opere d’arte! Qui ci vuole rimbombar di opifici, fumigar di ciminiere industriali!” Sembrava quasi d’udire nuovamente le scemenze d’un Tommaso Filippo Marinetti. Naturalmente qui ci fermiamo e non facciamo né nomi né cognomi, perché, ripetiamo, le intenzioni furono buone, nobili, rigorosamente disinteressate: ma i guai cominciarono di là. Ed è triste ammetterlo.
Con la eccezione dell’Alfa Sud, probabilmente unica e sola realizzazione debitamente appartata, le ubicazioni furono disastrose. Naturalmente all’esiziale trend collaboro’ fin da subito una spietata speculazione edilizia. A Napoli si videro persino casi di ridicoli mezzi “grattacieli” sorti all’interno (sic!) di venerandi cortili barocchi; palazzi settecenteschi del centro “elevati” a doppia altezza con sovrapposti piani di vile cemento, subito anneriti dall’umido. Le sottili solette cementizie dei miserabili nuovi fastigi divennero quasi il miserabile contrassegno dell’edilizia locale, simile a castelli di carte da gioco, che sono ancora là, semiaccartocciati, a documentare lo sfascio. Enormi segmenti di coste, di incomparabile bellezza e pertanto adattissime all’inaugurazione di un turismo di peculiare e insostituibile interesse, furono distrutte o bruttate: si pensi all’insistenza con cui si continuo’ ad utilizzare per acciaierie e cementifici le zone di Coroglio e di Bagnoli; la distruzione dei villaggi vesuviani e dell’intero litorale che da Portici mena a Castellamare di Stabia, iniziando dall’ormai semiscomparso “miglio d’oro” famoso per la bellezza delle ville borboniche; in seguito, costruzione di scadenti quartieri periferici, e quasi di baraccopoli, deturparono le zone di Baia, di Bacoli, dell’Arco Felice, Monte di Procida, Cuma e Torregaveta; e al di à di Cuma, di Villa Literno e oltre. Addio venerabili memorie di Petronio e di Virgilio! Esse furono distrutte senza vantaggi di controparte, perché si sarebbe potuto – se proprio si doveva e voleva – costruire le nuove cacche e baracche almeno un poco… più in là.
Con lenta ma tristemente sicura progressione, coste e zone prospicienti furono progressivamente trasformate in spiacevolissimi paesaggi semi-industriali e squallidi suburbî. La felliniana malinconia propria dei luoghi destinati solo ai rapporti di lavoro e poi quotidianamene abbandonati da impiegati e operai, si sostitui’ alla felice magnificenza delle spiagge costellate di narcisi e protette, di chilometro in chilometro, dalle “torri aragonesi”, quelle dei tempi che fecero esclamare al poeta:
Sai tu quando fosti, Napoli, corona?
Quando regnava Casa di Aragona.
Se lo squallore del provvisorio ha via via inquinato l’anima stessa delle coste campane, le città hanno in genere seguito, nei modi a loro proprî, questo medesimo destino. La zona sud di Salerno, dal Torrione fino a Mecatello ed oltre, forse fino a Pontecagnano, fu quello che oggi è: orrida. (Ma per fortuna il sindaco De Luca ha bloccato l’incipiente rovina del centro della città, che oggi è un esempio raro di ottima conservazione). Avellino ha generato uno strano complesso città/campagna di cui sarebbe difficile non dare un giudizio assai negativo; Benevento mostra, fin nel centro cittadino, notevolissimi e imperdonabili esempi di sfregio. Ed anche qui la periferia è dimostrazione eloquente di che cosa possano produrre l’assenza di un coordinamento severo e l’anarchia della speculazione.
Di Pompei, che di anno in anno agonizza, s’è parlato ancora di recente: ma, tipica “italianata”, approfittandone per calunniare un gentiluomo, uno dei pochi che si ergeva a difensore consapevole: il Ministro Bondi -, che la nostra Italia, con puntuale solerzia, ha espulso dalla ammistrazione del meglio di se stessa per continuare indisurbata nel peggio. E’ questo, infatti, il tacito motto del Meridione: “gentiluomini, via!”
Io certo ho parlato e parlo, ho scritto e scrivo di Napoli, con eccessiva insistenza. Ma si trattava d’uno dei gioielli monumentali, architettonici, culturali, più notevoli d’Europa. Oggi, spesso chi si aggira per questa città che sembra il revenant di se stessa si chiede se la fama del suo passato non fu pura e semplice esagerazione retorica. Le opere d’arte distrutte o trafugate sono migliaia, centinaia i palazzi di insostituibile valore architettonico demoliti.
Ma è il caso di insistere con questo che ormai appare uno sterile, monotono piagnisteo? Sί, perché il fatto ulteriormente grave è che la deturpazione, l’incuria, le demolizioni volute o subίte per pura ignavia, tutto cio’ continua, e non se ne vede neppure di lontano la fine.
Una situazione cosi’ gravemente compromessa, e una città tanto derturpata e “sprecata” da mani non si sa se più colpevoli o interessate o ignoranti, meriterebbero immediate cure, salvataggi urgenti, inversioni di tendenza rapide e decise, demolizione punitiva del costruito illegalmente, difesa e valorizzazione di tutto cio’ che ancora c’è da salvare (e che fortunatamente è molto)
Invece, e infine, ciliega sulla torta, camorristi e speculatori edilizi presero e prendono l’abitudine di addobbare i loro costosi “salotti” con braccia, gambe, volti, nasi e piedi strappati alla statuaria cittadina. Cosi’ sono scomparse e/o sono state deturpate centinaia di statue: scomparse, mesto esempio, le due mirabili piccole sfingi che ornavano il grembo della statua del Nilo a Spaccanapoli..
E finalmente ecco che anche Napoli, da un paio di decenni a questa parte, s’è messa a scimmiottare per imbecille vanità le città straniere già colme di ignobili, caduchi saggi di “arte contemporanea” -, ed ecco musei, pinacoteche, gallerie e mostre di quelle fetenti carabattole che oggi si chiamano “arte contemporanea”. Una mia amica che, in un di questi musei-obitorî, vedendo in un angolo un secchio d’acqua sporca con tanto di “mocho” gocciolante, ha chiamato il custode per denunciare la vergognosa presenza, s’è sentita rispondere di badare per favore ai fatti proprî, perché trattavasi di importante materiale d’ esposizione.
Tutto questo ho qui ricordato per concludere con una nota “a contropelo”. La città è oggi guidata da un sindaco noto, diciamo, per “futili motivi”. Ebbene, De Magistris, recatosi in uno di questi nuovi sacrarî-latrina dell’arte contemporanea, e trovandosi stretto, immagino, tra capolavori quali pitali sbreccati, pentole ridipinte, condom gonfiabili a pompetta, etc., molto intelligentemnete ha protestato: ma come! in una città dove vanno a pezzi tesori d’arte e di cultura, si gettano dalla finestra fiumi di denaro per organizzare immondezzai pomposamente ribattezzati “musei d’arte contemporanea “o, magari, addirittura futura!?
Bravo De Magistris! E’ stato il solo. Spiritus flat ubi vult, e stavolta ha “soffiato” su di lui e attraverso di lui. Signor Sindaco! Lei milita in una parte a noi avversa, tanto avversa da non riuscire a capire da che parte si trovi -, eppure qui merita tutta la nostra (alquanto “verde”, certo) approvazione.
Leonardo Cammarano, 19 luglio 2011
Zona di frontiera (Facebook) – zonadifrontiera.org (Sito Web)
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