Vedendo gli accadimenti delle ultime ore che scuotono il medio oriente, la mia mente corre alla gloriosa stagione, novembre 1989, del crollo del muro di Berlino. Come non ricordare quei momenti, quei volti, quelle speranze di milioni di giovani che, come me, credevano in un mondo senza oppressione, in un mondo senza blocchi.
Ricordo come fosse oggi, io giovane studente a Berlino, pochi giorni dopo il crollo del muro a festeggiare la fine della tirannia russa. In quei momenti credevo tutto potesse cambiare e, come succede spesso ai giovani, che nulla ci fosse precluso, ma la storia spesso è matrigna.
La caduta del muro di Berlino fu nella maggior parte dei casi una rivoluzione pacifica, eccetto che per la Romania, quindi una sommossa di popolo guidata o meglio ispirata da tre grandi figure del XX secolo, Ronald Reagan, Margaret Thatcher e Giovanni Paolo Secondo. Con le loro azioni, autonome e indipendenti, dettero un colpo mortale al sistema comunista.
Tutto sembrava, pur con mille problemi, andare nella direzione di una svolta mondiale inarrestabile. Poi accaddero due avvenimenti che, rivisti a distanza di tempo, cambiarono il corso della storia. Il primo, nel giugno del 1989, fu la sanguinosa repressione del regime cinese in piazza Tiananmen (migliaia di giovani studenti trucidati dal regime). Il secondo, nell’agosto del 1990, fu l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein.
Mi apparvero subito chiare due cose, la prima che la forza di rinnovamento nei paesi ex comunisti non avrebbe intaccato il regime di Pechino, la seconda che il vero problema democratico si stava spostando in medio oriente. Sorvolo sul conflitto ebraico-palestinese e le tante cose che sono state scritte e dette, molte delle quali strumentali e false, soffermandomi unicamente sugli avvenimenti che infiammano il medio oriente in questi giorni.
La caduta di Mubarak, di Ben Ali e la prossima caduta di Gheddaffi, aprono uno scenario molto più inquietante del crollo del muro di Berlino. Nessuno è in grado di capire quali possano essere gli sviluppi e le contaminazioni in tutto il Nord Africa, certamente il volano della rivolta è la povertà di questi paesi e la sete di democrazia, ma che cosa stanno facendo le super potenze per gestire questa situazione di crisi?
Gli Stati Uniti con Obama vivono alla giornata e sembra che non ci siano strategie atte a risolvere, o almeno a contenere, i conflitti in corso. In Italia l’opposizione starnazza per i rapporti del Premier e gli interessi economici di molte nostre aziende nel mondo arabo, dimenticando che il patto di amicizia tra Libia e Italia fu firmato da tutti, eccetto i Radicali e l’UDC. Il partito democratico vive il perenne imbarazzo di D’Alema, che solo sabato in un intervista al “Sole 24 Ore” non chiedeva le dimissioni di Gheddafi, ma una soluzione politica al problema. La Francia mantiene un basso profilo, certa di mantenere la sua influenza dominante nei confronti dell’Algeria e poco interessata ad altro.
Le nostre aziende, ENI, Impregilo, ecc. pensano solo a salvare il salvabile, dato che si parla di migliaia di miliardi di euro di investimenti e appalti. Occorre fare un passo in avanti e con coraggio, tutti i regimi dei Paesi del Nord Africa cadranno, ma c’è il rischio di un avvento al potere delle frange più estreme dell’islamismo integralista.
Di fronte alla vita e alla libertà delle popolazioni non si dovrebbero far conti di bottega e strumentalizzare la situazione per un tornaconto politico nazionale. Il momento è di una gravità senza precedenti e il panorama geopolitico del Nord Africa rischia di consegnarci un’unica certezza: il rafforzamento del regime iraniano. Sembra assente ogni strategia e mancano leader mondiali della statura di Reagan e della Thacher. Nessuno è stato in grado di prevedere questi accadimenti.
La violenza genera sempre violenza e in Medio Oriente ogni rivoluzione ha sempre portato ad una nuova tirannia. L’unica democrazia dell’area, Israele, rischia di ritrovarsi ancora più accerchiata e se al potere andranno le frange più estreme del mondo islamico la nostra prima linea di difesa non sarà più l’Afghanistan, ma l’Europa.
È auspicabile le popolazioni del Magreb possano finalmente assaporare la libertà e vivere in condizioni più umane, ma i rischi sono enormi in un momento in cui i grandi Paesi sembrano assenti, colti di sorpresa e privi di alcuna strategia.
Come sono lontani quei giorni del novembre 1989 a Berlino, dove si respirava aria di speranza e di libertà, mentre oggi, di fronte a cambiamenti forse ancora più epocali, si sentono solo diatribe politiche da taverna.
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