Perchè poi, Signori e Signore (non si dice più signoresse), io di politica non ne capisco più e chiacchiero da bar. Fecero una legge elettorale come il superenalotto, che non vinceva nessuno, e nessuno ha vinto; quindi ora dovrebbero essere tutti contenti.
Dei cinque stelle, ciò che si sa è che sono per il reddito di cittadinanza e l’abolizione del congiuntivo. Due capisaldi irrinuciabili, della dottrina casaleggica che passano lisci sul web, come un brodino perché ci tolgono davanti il lavoro e la sintassi, arnesi inservibili nella società contemporanea e pure faticosi ad intrattenere.
Poi c’è l’onestà taratattattà che vale per il vicino, quello che ha sempre l’erba più verde e la pagliuzza nell’occhio, e l’autobus col fico, molto ecologico con quelle belle larghe foglie che si usavano nella Bibbia come mutande per nascondere, come si dice qua “le parti civili”, e i fichi a settembre si mangiano pure senza il prosciutto, se c’è la crisi.
Però di Maio ha detto che non vuole fare il governo col Cav(aliere, non olo) dagli occhi a mandorla (come Emilio Fede) perché somiglia troppo a Mao tze Tung. Dice che vuole farlo con Salvini o col Pidì che per lui pari son. Chissà che pensano quella massa di amici miei radicalchic che inalberando le migliori fake news dei social – indignati cronici del nulla – hanno sbarrato cinque stelle giulivi, certi che Beppe fosse Karl, con un po’ più di forfora e un po’ meno barba.
Il pidì dimezzato ostenta una calma olimpica, forse perché, per dirla con gli Squallor: “è bellissimo, ma ha un solo difetto: non c’è”, e poi ci sono tutti quelli che un tempo si chiamavano cespugli, non pervenuti, ma che perverranno, ad uno ad uno al cospetto di Mattarella. E possiamo annoverare Grasso, la Boldrinessa, la Bonino e tutti quei revenants che il rosatellum, come per magia, ha riesumato alla grande.
La regia del musical non è malvagia: però mancano le emozioni forti e le battute sono vecchie: di fingere di formare un governo non frega a nessuno, che il finale è già noto da un pezzo. Del resto, un copione scritto da Bruxelles, cosa volevate che fosse? Il primattore, Mattarella, programmato per dire dieci frasi, come quei bambolotti di una volta ma più tecnologico. Quelli ogni tanto saltavano un giro e invece di dire “mamma ti voglio bene”, se ne uscivano con “dammi la pappa” e così le bambine erano certe di aver a che fare con un pargolo pensante davvero, e pure un poco capriccioso.
Lui, no. Non sbaglia una sequenza, semmai s’inceppa e sta proprio zitto. Non cambia abito, non cambia espressione. La mattina i valletti del Quirinale accendono l’interruttore, controllano le pile, e tutto va liscio. Quindi li incontrerà tutti, a beneficio delle telecamere e dei cronisti un tanto al chilo, faranno le foto con le immancabili strette di mano, ognuno uscirà a straparlare e tra qualche mese il conte Gentiloni sarà nuovamente incoronato primo lacchè, e chi s’è visto, s’è visto.
Ed è quello che abbiamo voluto, perché votare non è come compilare la schedina del totocalcio. Votare è – lo dico e lo ridico, e lo ridirò – delegare una parte sostanziosa del nostro destino ad un tizio, o ad un gruppo di tizi che dovranno occuparsene nel futuro. Certo, la legge elettorale schifosa, certo l’offerta politica deprimente, certo qui e certo lì, ma se poi ci mettiamo anche noi e la mandiamo in vacca, dobbiamo star zitti e incassare, giacchè la protesta civile – come la Politica alta – non è affare di social e di like.
Se tanti oscuri signor nessuno senza programmi, senza passione e senza cultura sono arrivati fin lì, é perché qualcuno ce li ha mandati. Eh, non guardate altrove, sei stato tu, sono stata io, siamo stati noi. Che Italia vogliamo? E poi, la vogliamo davvero? O vogliamo in eterno continuare con lo sciolti, si balla!, col naso sul cellulare e la testa tra le nuvole?
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