Noi di quella generazione lì, strappata nel ’68 a un’infanzia beata, con tanto di scuole severe, grembiulini neri, zie nubili e confessioni al mercoledì con la tremarella nelle gambe, non avevamo peccati, ma non lo sapevamo; e nemmeno sappiamo come fummo inghiottiti in quella stagione stravagante, fanfarona e dogmatica che da diversi che eravamo, ci fece tutti un po’ più uguali. Si crede a torto che trasgredire significhi essere liberi: è un’illusione, si passa solo da un giurisdizione a un’altra. Si trasgredisce solo da vecchi, magari per nostalgia. Et encore…
Era obbligatorio, insieme con la visione della Corazzata Potëmkin, portarsi in tasca la doppia tessera: noi, “transnazionale” non sapevamo manco cosa volesse dire, figurarsi! L’estero era già a Firenze, il mondo era nel tondo turbolento del golfo, carezzati dal sole. Dietro il Vesuvio, nulla. Andare, dove? E per fare che?
L’amore libero, il divorzio, l’aborto, le grandi novità per noi che conoscevamo soltanto la poesia, e tanta che ce n’era che ci venne a noia, si doveva volere “altro” e cominciammo a vergognarci di sognare l’abito bianco, la culla, le calze di seta dopo i diciott’anni (prima calzettoni rigorosamente candidi) tirati a forza da quel cantuccio dove la lama del sole tardivo batteva sul grammofono, e noi ascoltavamo a settantotto giri la favola di Cenerentola, sognando un principe azzurro tutto nostro, magari il bambino della porta accanto.
La doppia tessera era l’iscrizione ai liberi, per noi, che non sapevamo di esserlo. Provare per credere!, e ci buttavamo trionfalmente in politica forti del dogma, ci avviavamo ai congressi, pantaloni magliettina, senza un filo di trucco. Poi accadeva che nelle camerate miste qualcuno osservasse con una certa insistenza le nostre camicine da notte sottili, scollate, innocenti. Il cerbero del letto accanto ti radiografava la cotonina e apriti cielo!, le urla serpeggiavano nei corridoi, mica per paura, ma per lo sdegno: lesa maestà, libertà di cotonina e parità di sessi. Il tapino retrogrado veniva additato al pubblico ludibrio. Il declino dei maschi dev’essere cominciato così, l’utero era nostro, e dovevamo gestircelo noi.
Le più fortunate che si accasarono subito, persero i grilli dalla testa in fretta. Le “emancipate” bevvero fino in fondo l’amaro calice. Con il divorzio l’ebbrezza travolse pure la generazione di prima, e accadde per molti di noi, che quella legge tanto invocata, osannata, referendata, urlata colpisse come un terremoto la nostra famiglia. E allora quella catena lunga secoli fatta di scatoloni di foto ingiallite di nonni in uniforme, prozii arcipreti, prime comunioni finiva al macero in nome della nuova libertà. Al rogo la famiglia e cassapanche nello scantinato. Il corredo, robaccia per reazionari, magari fascisti, si diceva. Ma avevamo la doppia tessera, e il mondo era nostro, anche se poi non sapevamo davvero cosa farcene, di questa proprietà acquisita. Abortivamo per ideologia, dopo esserci sbarazzate della verginità come fosse un ingombro, fiere, selvatiche e senza dubbi. E senza dubbio, la coscienza non c’è.
I predicatori della modernità sono tutti un po’ così: a furia di essere innovativi si fanno antichi, patetici. Il nulla è sempre esistito, in ogni epoca, è solo questione di quantità. Ma non è mai stato tanto invasivo come adesso; e quando un predicatore muore, le sue pecore nere smarrite si trovano sole, senza pastore, senza culla, senza corredo. In fondo, pure i predicatori sono dei poveracci, esattamente come noi ed hanno bisogno di preghiera, di rimpianto, d’amore. Forse siamo ancora in tempo a domandarci perché mai, per essere “civili”, si debba per forza uccidere la poesia delle persone. Perché siamo obbligati all’eufemismo perpetuo per stravolgere il significato di tutto, e perché dobbiamo assoggettarci a sentirci colpevoli di essere noi stessi e non abbiamo né voglia né tempo per pentirci delle nostre vere colpe. Perchè se la società è ridotta così, è pure per colpa nostra, mia, tua, insomma precisamente individuale.
A pensar bene, senza un serio e meditato pentimento, non abbiamo granché ad offrire ai nostri figli, né l’esempio, né la fede e nemmeno il pensiero. Solo una devastante solitudine di un mondo di plastica, e loro in qualche modo, espropriati di quelle eredità che ci fu elargita a mani basse e che dilapidammo con leggerezza, sono meglio di noi, perché esercitano il sistematico disincanto verso i falsi profeti. Ed è già qualcosa.
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