Massimo D’Alema ospite di Giovanni Floris, “Di martedi” su La7, in contraddittorio con Marine Le Pen, ha in buona sostanza affermato che per competere in un mondo di grandi bisogna essere grandi. Che gli Stati, da soli, fuori dall’Europa verrebbero schiacciati dal mondialismo.
È un antico refrain della sinistra e degli europeisti ottusi, senza se e senza ma, di quelli cui questa Europa va bene così. Una logica già applicata, almeno dagli anni ’90 in poi, alle banche e alle aziende, non solo agli Stati. Grande è bello, grande è forte, grande è sicuro. Balle. Grande significa solo un più fragoroso botto al momento della caduta. Citofonare Michail Gorbaciov per ulteriori ragguagli.
A livello industriale la dimensione è di certo utile per strappare il miglior prezzo di materie prime o servizi. Anche in questo caso però, il potere d’acquisto è solo una piccola parte di tutto il processo produttivo. Efficienza, innovazione e organizzazione sono determinanti per il successo di una azienda. Il modello Ford, il taylorismo, la produzione di massa basata sull’offerta, è stato superato dalla produzione just-in-time, adottando un sistema pull per evitare sovraproduzione e da una serie di principi di cui il kaizen (miglioramento continuativo del modello di business) è solo uno dei tanti che vanno a comporre una filosofia produttiva complessa, nota come Toyota Way.
Il fatto che Toyota sia divenuto grande, grandissimo, addirittura il primo produttore di veicoli al mondo, capace di macinare utili pari a tutte le altre compagnie automobilistiche messe insieme, è una conseguenza di un sistema industriale vincente, non il contrario.
Massimo D’Alema, in buona e numerosissima compagnia, pensa invece che la dimensione da sola sia sufficiente. Evitando facili e poco eleganti battute, si può certamente affermare che la sua è solo un’illusione, nemmeno pia, date le conseguenze cui può condurre. Certo, una azienda che va male possiede un’inerzia maggiore di una piccola, quindi teoricamente dovrebbe aver più tempo per riformarsi e ritornare competitiva, ma di converso anche i processi di cambiamento richiedono tempi molto più lunghi, proporzionali alla dimensione.
Nel mondo globalizzato, piccole società che producono beni o servizi di alta qualità e in settori di nicchia, vanno alla grande e si possono permettere pure il lusso di scegliersi i clienti. Ma hanno qualità, innovazione, competenza, strutture manageriali e processi produttivi flessibili e vincenti.
Oggi però su ogni singola azienda, grande o piccola che sia, la competizione tra sistemi-stato incide in modo devastante. Trasporti, telecomunicazioni, energia, sistemi fiscali, giustizia, burocrazia sono tutte voci che pesano sull’intero sistema produttivo, da quello industriale al terziario, come sul primario (si pensi al vergognoso pasticcio dell’Imu sui terreni agricoli, alle quote latte o ad altre simili castronerie). I sistemi più penalizzati sono quelli che sommergono il mercato di infinite norme, impacciandolo: dalla dimensione di vongole e zucchine, fino ad arrivare a quelle classi politiche delinquenziali, di cui Massimo D’Alema è un fulgido esempio, alla perenne ricerca d’indirizzare la rabbia popolare verso nemici inventati di sana pianta, quali gli evasori, pur di non ammettere che l’apparato statal-burocratico da loro creato è fallimentare, parassitario e vessatorio. In questo caso sì che la dimensione conta, in negativo però.
Non è la grandezza che bisogna inseguire, né in economia né in qualsiasi tipo di organizzazione, nazioni incluse, ma l’efficienza, la capacità di adattamento, il buon governo. Aziende gestite bene funzionano bene, indipendentemente dalla loro economia di scala. Quelle gestite male chiudono malamente. Per questo, se non cambieremo, l’Italia è destinata a fallire e l’Europa a diventare un circolo del bridge. Grande, ma inutile. Anzi, dannoso.
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