Le reazioni scomposte alle quali stiamo assistendo in merito alla vicenda Parmalat e più in generale con riferimento a recenti acquisizioni o al conseguimento di posizioni di azionista di riferimento di alcune società italiane (Assicurazioni Generali, Edison, Bulgari e in un recente passato BNL) da parte di imprenditori francesi inducono ad una riflessione seria sulla struttura del capitalismo (pubblico e privato) italiano e sulla qualità della sua classe dirigente.
Va subito detto che una offerta pubblica di acquisto totalitaria (OPA), lanciata in conformità ai dispositivi di legge vigenti, sottoposta ad approvazione della Consob e per di più giudicata autorevolmente non ostile, rappresenta una espressione del mercato a cui si risponde, se del caso, con una contro offerta più favorevole per gli azionisti. E’ legittimo comunque preoccuparsi non solo della salvaguardia degli interessi degli azionisti ma anche di quelli dei consumatori e dei produttori di latte italiani, non necessariamente coincidenti; i produttori in particolare, superata l’ondata emotiva, dalla vicenda trarranno stimolo per accrescere il proprio livello di efficienza, anche attraverso economie di scala, nel rispetto rigoroso del contingentamento della produzione imposto dalla UE.
Stante il fatto tuttavia che, anche e soprattutto nel business vale il detto che senza soldi non si canta messa, impegnare risorse pubbliche al fine di tutelate gli interessi di tutti gli stakeholder italiani pone qualche interrogativo sulla priorità strategica di destinazione di dette risorse che probabilmente sarebbe più opportuno allocare in immobilizzazioni tecniche (ovvero infrastrutture: come ad esempio il completamento della rete ferroviaria ad alta velocità Milano-Venezia) piuttosto che in immobilizzazioni finanziarie per acquisire partecipazioni minoritarie di monitoraggio; prevengo subito l’obiezione secondo cui le due situazioni implicano investimenti di ordini di grandezza non confrontabili ma è il principio che conta, anche per evitare effetti imitativi a catena.
Quanto all’obiezione di una lamentata mancanza di reciprocità nei comportamenti, va detto che questa giusta osservazione avrebbe richiesto a suo tempo interventi a livello UE volti a rimuovere situazioni neo-protezionistiche nascenti piuttosto che invocarne la estensione a danno del mercato.
Occorre infine osservare che, allo scopo di evitare il ripetersi di situazioni già sperimentate (vedi caso Telecom) sarebbe stato opportuno già da tempo mettere in agenda UE la revisione dei criteri di attuazione di una OPA, con specifico riferimento alla facoltà di fusione della società oggetto di acquisizione (emittente) nella società che lancia l’OPA (offerente): non dovrebbe essere infatti consentito il trasferimento del debito dell’offerente nella nuova entità giuridica ove questo aggravi il rapporto di indebitamento preesistente nella società target di acquisizione. Ciò allo scopo di impedire operazioni di leveraggio spinto, tali da compromettere la stabilità finanziaria della società risultante dalla fusione.
Dicevamo che il caso in questione induce ad una riflessione sulla struttura del capitalismo (pubblico e privato) italiano e sulla qualità della sua classe dirigente. E’ storia nota che nell’arco degli ultimi quindici-venti anni l’Italia ha perso in modo irreversibile alcuni settori della grande industria (chimica, farmaceutica, tessile e in parte l’auto); si tratta di settori la cui dimensione competitiva, nei casi di successo, rende possibile il mantenimento di strutture di ricerca applicata dotate di massa critica adeguata, con ricadute sulla qualità del prodotto tali da assicurare alto valore aggiunto in misura sufficiente a sostenere investimenti di sviluppo e a garantire alti salari.
La crescente pressione competitiva a livello globale, associata ad una connaturata incapacità a fare sistema a livello Paese, la insufficiente disponibilità di capitali di rischio in presenza di un risparmio privato drenato in prevalenza dalla domanda di finanziamento del debito pubblico e soprattutto il deficit di investimenti di razionalizzazione e di sviluppo hanno creato le condizioni per un indebolimento progressivo di alcun settori industriali determinandone in taluni casi il collasso.
A questo proposito vorrei fare cenno ad un argomento che non viene quasi mai citato e che riguarda, in termini assolutamente generali, l’adeguatezza della tecnostruttura che ha governato il sistema industriale; tecnostruttura intesa non come somma di singole individualità, in molti casi a livelli di eccellenza, ma di capacità coordinata di squadra, consolidata da una condivisione, maturata nel tempo, di obiettivi, strategie e azioni. Sia nella sfera pubblica, influenzata, in particolare nella prima repubblica, da un’ingombrante incombenza di referenti politici, sia in misura minore in quella privata, allineata prevalentemente agli orientamenti dettati da Mediobanca, ma comunque non esente da influenze politiche per gli inevitabili intrecci pubblico/privato tipici di un’economia mista, i criteri di selezione dell’alta dirigenza assai spesso hanno dovuto rispondere a logiche di gradimento politico, prevalenti rispetto a criteri meramente meritocratici. Il tutto in un ambito di selezione confinato in una rosa ristretta di candidati con scarsissima mobilità in ingresso e soprattutto in uscita. Al di là comunque delle qualità individuali, fuori causa, era oggettivamente difficile che ne potesse scaturire una capacità coordinata di squadra di comando. Come aggravante, si aggiunga che in taluni casi l’adozione del modello di manager intercambiabile, dettata dall’esigenza di frequenti rotazioni ai fini della costruzione di rapidi percorsi di carriera, ha completato l’opera, impedendo peraltro una valutazione compiuta dell’operato del singolo manager, che si misura su tempi lunghi. Ne è scaturita una prevalenza di manager razionalizzatori, molto attenti al contenimento dei costi e alla buona gestione ma non altrettanto sensibili a coniugare l’opera, comunque necessaria, di potatura con le leve dello sviluppo.
Francamente non credo che i capi azienda di Sanofi Aventis o di Novartis, leader mondiali in campo farmaceutico, che rappresenta uno dei settori industriali a più alta intensità di ricerca, siano manager intercambiabili. A completare il quadro, su piccola scala vi è infine la galassia delle tecnostrutture che governano il settore delle utilities (gas, elettricità, acqua, trasporti locali) a livello di società municipalizzate, che, in situazioni dominanti di quasi monopolio naturale, si ripartiscono democraticamente il potere in funzione del livello di consenso politico locale.
In un tale scenario, che non prospetta nulla di buono per l’avvenire, l’arrivo di un nuovo attore straniero, che porti “musica nuova in cucina”, sparigliando il gioco dei professionisti della politica, può costituire un evento salutare oltre che una occasione su cui riflettere attentamente per dare una svolta di modernità al Paese.
Andrea Verde, 3 maggio 2011
Zona di frontiera (Facebook) – zonadifrontiera.org (Sito Web)
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