Cari Compatrioti,
Se il 13 porta fortuna, figurarsi gli altri. Stiamo qui tutti uggiosi a leccare ciascuno le nostre ferite: ne abbiamo prese di botte, porca miseria, ci hanno turlupinati alla grande, ci hanno infarciti di frottole e ci hanno vuotato perfino il borsellino degli spiccioli.
Di una cosa però non ci accorgiamo abbastanza: senza una Patria, si è sempre più poveri. In fondo la colpa è un pò anche nostra, se abbiamo toccato il fondo, o quasi, è perchè divisi in fazioni belligeranti come siamo, è facile tenerci a bada sotto una lurida zampa poltroniera: basta aizzarci contro l’altro, farci veder rosso ed eccoci pronti a beccarci tra noi a sangue, scordandoci perfino il perché. I giornalazzoni di riferimento ci sguazzano, non bisogna più credere a nulla, nemmeno alle previsioni del tempo.
Insomma, l’Italia. Ne conservo un meraviglioso ricordo, che impallidisce mestamente col passare del tempo: una bellissima lingua, impreziosita da parole di ogni dialetto, le famiglie operose, le nostre splendide opere d’arte e i nostri monumenti che giravano il mondo nelle foto color seppia, seducendo viaggiatori d’ogni razza. E poi, l’educazione, il rispetto, la compassione e il sorriso. I giorni delle feste – un solo regalo sotto l’albero, sudato, guadagnato e per questo meraviglioso -, la cucina in funzione e tutti a impastar farina, girar sughi, impiastricciare grembiuli per stare insieme. Nessuno lasciato in disparte. Non c’era la retorica dello stato sociale, ma il povero, il vecchio e perfino il solitario squattrinato avevano un posto a tavola. Ricordo mio nonno a tavolino, a compilar vaglia per l’infanzia derelitta. Chi potrebbe oggi immaginare una parola tanto grondante di tenerezza e di tragedia? Non è forse scomparsa la nostra pietà dietro i telefoni gialli, rosa, azzurri buoni a cancellare con un insignificante driiin ed un’offerta anodina tutti gli occhi cerchiati della sofferenza? Adesso ci dicono che siamo razzisti; ma in quel tempo non ci accorgevamo delle diversità perché guardavamo le persone: nè la pietà nè il buon senso si impongono per legge, è tempo che ognuno di noi impari di nuovo a pensare con la propria testa, senza seguire alla cieca i cattivi maestri e le mode.
L’appartenenza politica che si fa dogma ad escludendum è la versione nostrana del credo talebano. Ed è stata creata artificialmente ed artatamente per perderci. E lo stato non è la Patria: è la sovrastruttura parassita che la infesta, quella che spende e spande infischiandosene di chi per disperazione si ammazza, quella che illude disgraziati di altri popoli per poi lucrarci e fare propaganda, quella che sbatte in galera chi issa il Tricolore al posto di un vessillo farlocco svuotato di ogni ideale. Però per avere una Patria occorrono i Patrioti, e per Patrioti s’intendono uomini e donne consapevoli di appartenere – ciascuno sanamente con la propria identità – ad un’unica grande famiglia, esserne orgogliosi, conoscere e farne conoscere la cultura, difenderla e tenerla al riparo da ogni aberrazione ideologica e baggianate retoriche. Lo facciamo, noi? Siamo pronti a discutere sulle cose da fare, tutti insieme ed a difenderci da chi ci vuole schiavi?
Ricordate, Compatrioti, che l’Italia è un sogno d’arte e di cultura, prima di essere una Nazione. C’era già – ed era il nucleo di ciò che avrebbe dovuto essere l’Europa, quella vera – nel rinascimento ed anche prima, le sue tracce splendenti di pensiero sono seminate dovunque e celebrate oltre confine, più che da noi. Cercate nella vostra memoria, l’avete conosciuta anche voi. I men giovani in quell’angolo dorato che chiamano infanzia e più giovani nei ricordi dei familiari. Ebbene, ritroviamola, perché esiste e non è quella dei burocrati. La libertà non può darsi senza conoscenza, se non siamo più liberi è anche perché abbiamo lasciato che ci facessero ignoranti. La libertà non può darsi senza rispetto, se siamo meno liberi è anche perché abbiamo disimparato a rispettarci e rispettare. La libertà non può darsi senza responsabilità, se siamo meno liberi e perché ci hanno trasformati in irresponsabili colpevoli che sanno solo dire “si” e “no” a comando.
Forse molti di voi penseranno che sono solo chiacchiere, che abbiamo un governo canaglia, un fisco carogna, una giustizia sovversiva, un presidente-monarca, che c’è la miseria, il territorio assassinato, l’istruzione allo sbando. È vero, ma non possiamo e non dobbiamo chiamarci fuori, se vogliamo salvare il salvabile.
Loro, lasciamoli nel Palazzo. Magari buttiamo la chiave. Noi, fuori, l’Italia delle Persone, si ricominci a costruire da un’italianità ritrovata. Quel signore che parla in televisione? Lasciatelo perdere, non ci riguarda, ma facciamo in modo di essere tutti più degni di gridare con quanto fiato abbiamo in gola: “Viva l’Italia!”.
Buon anno!
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