A margine di quanto recentemente accaduto, intendo le interviste rilasciate dal presidente della Sezione feriale della Cassazione, Antonio Esposito, c’è un aspetto che risulta agghiacciante e che risulta evidente dalle registrazioni divulgate da “Il Mattino”: la grave difficoltà di locuzione dell’alto funzionario.
Non perché si sia espresso in forma dialettale, ma per la sua evidente difficoltà nel costruire delle frasi di senso compiuto e nella zoppicante costruzione grammaticale. È un aspetto che stride con il profilo di una figura istituzionale, che ci si aspetterebbe di altissimo livello – almeno sotto il profilo culturale -, quale dovrebbe essere quello di un giudice. Ad ascoltarlo, sembra il cretinetti della pubblicità che ha passato tutta la notte sul pc a cercare voli o alberghi, finendo per sproloquiare.
Purtroppo questo non fa pubblicità, non fa ridere, ma decide del corretto svolgimento di due gradi di giudizio, incidendo sulla libertà delle persone. E, di solito, uno che non sa parlare, non sa nemmeno leggere. Speriamo solo che la scelta di far pronunciare la sentenza a quel giudice sia stata casuale e non perché reputato il migliore dei cinque.
Da questa intervista però traspare un aspetto ben più grave. La Cassazione non dovrebbe entrare nel merito ai processi, ma solo verificare se siano stati svolti in modo corretto o meno. Dalle dichiarazioni del giudice (condanna confermata perché sapeva, non perché non poteva non sapere) ciò non sembra affatto. La Corte suprema di cassazione non giudica sul fatto, ma sul diritto: è giudice di legittimità. Qualcuno dovrebbe informare Esposito e qualcun altro dovrebbe prendere i dovuti provvedimenti del caso.
Certo, la riforma della giustizia è fondamentale; la separazione delle carriere, indispensabile. Ma il problema è più profondo. Il problema sono gli uomini, non le leggi.
Quando un Paese deve normare tutto, legiferare per regolamentare ogni aspetto della vita di una società, spingendosi a decidere cosa sia lecito o meno persino in campo etico o morale, ebbene, significa che gli uomini delle Istituzioni di quel Paese non fanno il loro dovere. Significa che troppi nascondono la testa nella sabbia, e quando dovrebbero alzare la voce, tacciono perché nessun codicillo obbliga loro di parlare, anche di fronte a palesi ingiustizie. Si chiama viltà.
Nessuna riforma (benché necessaria e auspicabile) potrà riportare la magistratura nel giusto alveo delle sue funzioni: sono gli uomini a dover agire. Ed oggi, il solo che potrebbe farlo è il presidente della Repubblica. È una funzione legittima e doverosa, non solo per la valenza del suo ruolo istituzionale primario, ma anche e soprattutto per il fatto di presiedere il Consiglio superiore della magistratura.
In altri tempi, un altro presidente, Francesco Cossiga, definì il Csm «ultima sacca di socialismo reale del nostro paese» e non esitò un istante a togliere la delega al vicepresidente per guidare lui stesso un plenum del Csm. Prima però chiamò il comandante dei carabinieri del Quirinale, ordinandogli di precederlo e di circondare con i suoi uomini il Palazzo dei Marescialli e di tenersi pronti a intervenire se, dopo il suo discorso, il Consiglio non avesse tolto dall’ordine del giorno argomenti di carattere politico, che esondavano dalle funzioni del Csm. Il caso – guarda un po’ – fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione.
Oggi, invece, dopo la sentenza politica del caso Mediaset, abbiamo un presidente della Repubblica che si è limitato a biascicare la sua indignazione ed irritazione con una semplice dichiarazione: «ed ora bisogna riformare la giustizia». Dichiarazione entrata da un orecchio e uscita dall’altro, che inoltre è suonata come beffa per chi ha subito vessazioni e persecuzioni ventennali.
E chi, di grazia, caro presidente Napolitano, dovrà fare questa riforma? Che facciamo, attendiamo il Messia? Dimostri rispetto per il suo ruolo, mostri coraggio – almeno per una volta -, prenda per le orecchie il giudice Esposito, lo porti davanti ad un Csm da Lei presieduto e lo sbatta a calci fuori dalla porta. Invalidi la sentenza di Cassazione e la rimetta ad altra sede, verificando – lei garante – che la scelta degli uomini che dovranno giudicare sia finalmente imparziale e di alto profilo.
Questo farebbe un uomo, piegando le leggi alla giustizia, non nascondendosi dietro ad esse, come fa un travet dell’ultimo ufficio pubblico perché non vuole prendersi alcuna responsabilità ed è troppo annoiato per alzare il culo dalla sedia.
Cazzo! Salga a bordo!, direbbe qualcuno. Scelga se essere un uomo o un caporale.
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