«Dulce est desipere in loco»
Orazio
Devo farvi una confessione (non outing, malaparola inglese): per molti anni, prima di trasferirmi in Francia non ho guidato l’automobile. Nella guerra perduta, contro l’italico stato canaglia, avevo beccato una depressione. E spesso, sedendomi al posto di guida, mi prendeva un irrefrenabile desiderio di premere l’acceleratore ed andarmene a sbattere portandomi appresso chi capitava. Cosi, per prudenza, evitavo ogni tentazione. A posteriori ringrazio il Cielo, che mi lasciò il senno di prima, che di quello di poi son piene le fosse.
Eppure dovremmo essere lieti. L’Occidente, dal sessantotto in poi, ha abolito parecchie seccature. Non ci sono più ciechi, né sordi, né handicappati, e ovviamente, non ci sono più matti. Se poi capita che uno è davvero diversamente sano di mente, per carità!, non bisogna dirlo a nessuno, a meno che il signore o la signora in questione non siano d’accordo. È la privacy, bellezza. Il giovane pilota che stroncò disinvoltamente centocinquanta destini, aveva fatto a pezzetti il foglio del medico in cui c’era scritto che non doveva volare. Secondo il costume corrente, giammai il dottore avrebbe potuto alzare il telefono e mettere in guardia la compagnia perché avrebbe gravemente violato la privacy del suo paziente. L’orribile tragedia dell’Airbus è normale routine, perché ogni giorno di matti – che non son d’accordo a dichiararsi matti – ce n’è una caterva, liberi di far danni e morti per ogni dove, in nome del politicamente corretto. In compenso c’è una schiera di delinquenti, sanissimi di mente, che si fanno in quattro per farsi dichiarare matti ed ottenere sconti di pena. Neologismi assassini proliferano, fabbricando per istupidirci un mondo appiattito senza qualità, dove il male è censurato ed il bene, senza il suo naturale oppositore, svanisce in una pozzo nero di luoghi comuni. La coscienza critica ha bisogno di lessico antico e multiforme per ritrovare un tempo ed uno spazio a misura di “persona”, splendida parola il cui etimo nessuno ricorda più. Un’anima che risuona, che “sente” dietro una maschera, nel bene e nel male.
Cosa ha a che vedere, la magnifica e tragica unicità di ciascuno di noi, con gli eufemismi sciagurati che ci vogliono tutti uguali, normalizzati, falsamente buoni e dunque senza possibilità alcuna di rimedio e di riscatto? La malattia è in sè una limitazione della libertà, ma se è la mente ad essere malata non può essere proprio la malattia – che fagocita il suo pensiero – a decidere. Sembrerebbe che l’unica libertà rimasta, in questo fottuto stramaledetto idiota Occidente sia quella di preservare soltanto segreti che nuociano a tutti gli altri. Per il resto, non possiamo guidare senza cintura di sicurezza, non possiamo fumare dove ci pare, però le sigarette ce le vendono loro, non possiamo difenderci dai criminali che loro mandano in giro, non possiamo pagare in contanti, s’impadroniscono del nostro tempo facendoci riempire cartacce che non servono a nulla, se non a loro per spiarci fino al midollo, non ci fanno portare una schiuma da barba o un caciocavallo in aereo, non possiamo votare, ci tempestano di sondaggi anche se il nostro numero è segreto. Sanno tutto di noi e ci perseguitano con i loro divieti, sempre più surreali, vessatori, snervanti colpevolizzandoci se solo ci azzardiamo a pensare. Tutto è reato, fuorché il reato.
La follia, beninteso, può colpire chiunque in ogni momento. Il pensiero è un mistero incantevole e atroce. «Un giorno farò qualcosa che cambierà completamente il sistema, e tutti conosceranno il mio nome e se lo ricorderanno». Molti sapevano, un certificato era stato redatto, ma era nelle sue mani. Privacy! Altra malaparola inglese.
Ma già. Io vivo con un paranoico nella casa a fianco. Mi minaccia di morte ogni giorno. Ha già sparato altrove, buttato bombe, mobilitato interi reparti speciali della Polizia francese, e si è fatto pure tre anni di galera. Siccome la pazzia non esiste, lo prenderanno soltanto quando mi sparerà addosso. Non lo dico io, lo dicono le Autorità. Se poi sono in tanti ad andarsene con l’Isis, siamo ancora a domandarci perché?
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