Chi puntasse il riflettore sul sistema Italia non farebbe fatica a vedere che il Bel Paese, benché abbia una Costituzione (che un tale in vena di facezie ha definito “la più bella del mondo”) è un arcipelago di anomalie, ad elencare le quali non basterebbe lo spazio di un articolo: qui perciò mi limito a riflettere sulle non poche anomalie del sistema giudiziario.
Siamo il Paese nel cui vocabolario non vi è traccia del termine “responsabilità” – forse perché da noi non ha mai preso alloggio ed è per questo che gli italiani non ne conoscono il pieno significato, eppure è la regola prima della democrazia: il potere è esercitato per delega del popolo al quale pertanto bisogna rendere conto.
Qualche millennio fa Eschine, oratore politico ateniese, avversario di Demostene ammoniva: chiunque eserciti un potere pubblico è tenuto a risponderne (il termine “responsabilità” deriva, però, da quello latino respondere).
Qualche millennio più tardi, Montesquieu teorizzava la separazione dei poteri dello Stato: siccome si sa per eterna esperienza, che chiunque esercita un potere è portato ad abusarne, bisogna organizzare lo Stato in modo “che il potere arresti il potere” (Montesquieu, “Lo spirito delle leggi”).
La separazione dei poteri statali postulava, allo stesso tempo, la responsabilità dei poteri separati. Era la fine del potere assoluto, di quel tipo di potere, cioè, che faceva dire a Luigi XIV: “lo stato sono io” (era detto Re Sole appunto perché tutto il regno girava intorno a lui). Sorgeva, quindi, lo Stato di diritto, che sta a fondamento del costituzionalismo moderno occidentale (da noi però vige, non lo Stato di diritto, ma lo Stato dei “dritti”).
Ho voluto ricordare i due principi – responsabilità per l’esercizio del potere e separazione dei poteri statali – per dire che il nostro sistema giudiziario ne è lontano, ed è perciò anomalo. Infatti, come è risaputo, il potere giudiziario gestisce una potestà sovrana (amministra la giustizia in nome del popolo), ma al popolo non ne rende conto; e per di più, essendo dotato di prerogative sovrane (autonomia e indipendenza assoluta da ogni altro potere), è sottratto ad ogni forma esterna di controllo democratico. L’on. Luigi Preti alla Costituente definì pericolose le prerogative all’ordine della magistratura burocratica: configura – disse- «uno Stato nello Stato o, quanto meno, una casta chiusa, intoccabile».
Un tale potere non esiste in nessun Paese: basti scorrere le Costituzioni europee per convincersene. In Inghilterra – la più antica democrazia – i giudici della Corona (cioè quelli che hanno la più alta competenza), sono nominati con la clausola during good behavior, finché operino bene. E possono subire l’impeachment e, quindi, la destituzione.
Da noi un tale sistema è impensabile, per cui un qualsiasi magistrato può fare il bello e il cattivo tempo, può creare lo scompiglio nel sistema politico senza subire conseguenze, neppure in sede disciplinare.
I nostri Costituenti, eccessivamente condizionati dalla pregressa esperienza fascista, s’illusero che le prerogative assegnate al corpo burocratico della magistratura costituissero le colonne portanti di un baluardo capace di evitare il prevaricare del potere esecutivo sulla funzione giurisdizionale (ma è accaduto che la magistratura, diventata un super potere, prevarica i poteri legittimati dalle urne).
Questa negativa peculiarità del potere giudiziario – irresponsabilità e incontrollabilità – è aggravata da un’altra connotazione anomala (però non addebitabile ai Costituenti), vale a dire la concentrazione di potere “forte”, quale è l’unione organica di giudici e pubblici ministeri (organi della giurisdizione e organi del potere esecutivo, costituiti presso tribunali e corti).
Al peggio non c’è fine: abbiamo dal 1946 la “via italiana al pubblico ministero”, cioè, un pubblico ufficiale acefalo, che non dipende da chicchessia (a somiglianza della Prokura sovietica). Fu Palmiro Togliatti, all’epoca Ministro di Giustizia, l’autore del misfatto o, per meglio dire, l’autore del colpo di mano: profittando del fatto che all’epoca i ministri tiravano ciascuno l’acqua al proprio mulino, come ricordò Costantino Mortari, grande costituzionalista, fece firmare al Re – due giorni prima che il referendum decidesse la fine della monarchia! – il regio decreto legislativo con le garanzie per la magistratura.
Questa “via italiana al pubblico ministero”, a ben riflettere, è una anomalia grave e sconcertante, che non ha eguale al mondo. Invero:
a) sottrae la politica criminale alla naturale competenza del potere politico, diventando, di fatto, funzione esclusiva di burocrati (i Procuratori della Repubblica), irresponsabili e per di più professionalmente e politicamente inadeguati a svolgerla;
b) l’indipendenza assoluta del pubblico ministero fa di questo ufficio un potere autocratico e, quindi, potenzialmente arbitrario (affermò Piercamillo Davigo, pubblico ministero a Milano durante la rivoluzione giudiziaria ed ora Giudice alla Corte Suprema di Cassazione!: possiamo «rivoltare l’Italia come un calzino»). Aveva ragione Giovanni Falcone nel ritenere che «in mancanza di controlli istituzionali sull’attività del pm, saranno sempre più gravi i pericoli che influenze informali e centri occulti di potere possano influenzare tale attività» (al Convegno di Sinigallia del febbraio 1990, sull’obbligatorietà dell’azione penale, poi in “Il giusto processo”, 1990 pag. 167);
c) l’indipendenza del pubblico ministero è all’origine del deleterio fenomeno – prettamente italiano – della politicizzazione della magistratura, la quale ha perso per ciò la sua peculiare connotazione di potere neutrale rispetto la lotta politica, con rispettiva perdita di fiducia della collettività nella giustizia.
È vero che la Costituzione mantenne la decisione di Togliatti, ma solo transitoriamente, cioè fino al chiarimento della figura del pubblico ministero, all’epoca ibrida, avente anche qualche funzione di giudice (VII disposizione transitoria); però in Italia le discipline transitorie hanno durata biblica e rischiano di divenire definitive: si è dovuto attendere vent’anni per sapere che il pubblico ministero è mera “parte” del processo, senza alcuna funzione giurisdizionale e, quindi, distinto e distante dal giudice. Ma qui si è avuto il secondo colpo di mano – questa volta da parte di magistrati che formavano la maggioranza della Commissione ministeriale incaricata di adeguare l’ordinamento giudiziario al nuovo modello processuale; venne mantenuto, infatti, il pubblico ministero “parte” unito organicamente al giudice “superpartes” (la via italiana al pubblico ministero).
Quei magistrati fecero prevalere una esigenza corporativa – “l’unione che fa la forza” – contro la Costituzione e la legge delega, a beneficio della loro corporazione.
Oggi è nell’agenda politica la riforma della giustizia, ma stiamone certi che non se ne farà niente, oppure si farà una riforma gattopardesca: tutto cambi, perché tutto resti invariato. Questo perché a sinistra c’è l’interesse a mantenere l’attuale assetto giudiziario, strumentale al suo potere, a destra manca una precisa visione di come deve essere realizzato il cambiamento.
Pertanto bisogna che gli italiani desistano dall’aspettare la manna dal cielo e progettino il modo e gli strumenti per costruire una giustizia più giusta, al passo di tutte le democrazia non di facciata.
(continua)
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