« Excisum Euboicae latus ingens rupis in antrum,
quo lati ducunt aditus centum, ostia centum;
unde ruunt totidem voces, responsa Sibyllae.
Ventum erat ad limen, cum virgo. “Poscere fata
tempus” ait; “deus, ecce, deus!” »
(Virgilio)
« Così la neve al sol si disigilla,
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla. »
(Dante, Paradiso XXXIII, 64-66)
Al tramonto il casotto delle bibite e cartoline chiude i battenti; si spengono, lungo la discesa i passi e il cicaleccio dei custodi. L’Acropoli di Cuma – adagiata sul mare scintillante che vide Enea – mostra il suo volto prigioniero che il mare lambisce carezzando. Solo dieci anni fa, proprio fuori del cancello, sotto un pergolato rigoglioso un contadino gioviale offriva il suo asprigno e i suoi fichi ai viaggiatori assetati e quell’offerta sapeva d’antico. Un gesto rituale incurante dei secoli e degli usi; ma i giovani non fanno più vino quaggiù e in quell’ortus conclusus sono cresciute le erbacce, come dappertutto.
La notte inghiotte ogni dubbio residuo e tutto si fa sinistro, ostile, malinconico. Non c’è nessuno a raccontar storie per accompagnare il sonno della bella addormentata sul mare, nessuno che evochi gli Dei che vi furono onorati, nessuno che conosca a mente i versi di Virgilio: i randagi di Cuma – ce ne sono sempre stati – si tramandano di padre in figlio il compito di guardiani della città sacra.
Certo, da qualche giorno sono arrivati gli archeologi a portare vita e passione – forse perfino la Sibilla riuscirà a sorridere, vedendoli montare al tempio di Giove con pale e picconi, quasi cantando come i nani di Biancaneve; sono volontari e si prestano anche a far da guide ai turisti: vivono in una massaria diroccata, dormono nei sacchi a pelo e si fanno da mangiare da soli.
Nel tempio di Giove fervono le opre, intorno solo il silenzio del bosco di querce che Amedeo Maiuri volle intorno ai templi per preservare la sacralità dei luoghi, le foglie secche ad attutire i passi sui blocchi lucidi e scivolosi del sentiero.
“Pochi i visitatori: nessuno conosce questo posto”, ci dice sconsolato il gestore del chioschetto. “Scolaresche in primavera e poi nulla”. Su Cuma non c’è nemmeno un libbriccino da acquistare: il solo racconto è affidato alle pietre ed ai mirabolanti artificii d’una natura che non si arrende e che ogni tanto svela, come un suggerimento sussurrato e inascoltato, altre pietre ed altre storie. Verso il mare, nella “Silva gallinaria”, che i burocrati chiamano foresta ecologica ed altre simili baggianate, emersero dieci anni or sono un tempio ad Iside e il basamento del faro dell’antico porto; ma sono già abbandonati nel dimenticatoio universale dei Campi Flegrei dove nulla è importante, tranne il “tirare a campare” e fare qualche noiosa conferenza di tanto in tanto.
Campania, Campania… non si esagera a dire che su questo litorale giace tutta la storia del nostro Occidente e tutta la nostra ricchezza, ma nessuno se ne cura. Gli oligarchi del terzo millennio s’industriano a meraviglia per distruggere metro per metro il territorio sottomesso. A pochi chilometri si rade al suolo la Villa reale di Napoli, spettacolare passeggiata dei Borboni. Secolo per secolo, si fa terra bruciata. È forse una fortuna che la Sibilla sia stata dimenticata e che la sua incantevole dimora conservi ancora – tra erbacce, rifiuti ed abusi una selvaggia ed agreste fascinazione. Turismo, cultura… per quanti secoli ancora la nostra progenie dovrà ascoltare discorsi a vuoto prima che qualcuno apra gli occhi? Quanto resterà di tanta bellezza? La Sibilla risponde una sola volta; risuona nel fondo dell’antro il soffio del vento salato e il rumore delle fronde.
Qui è ancora Italia; qui dove la poesia è persistente e mette alla porta il chiasso infernale dell’abbrutimento collettivo, dell’istupidimento sistematico, qui dove la storia ferita s’impone all’uomo con severa autorevolezza. Forse capiremmo, se solo fossimo capaci ancora di ascoltare.
Da Cuma ci si allontana sempre con rimpianto. Uno dei cuccioli ci fà festa e si adagia sulle nostre caviglie per non farci partire. È venerdì, lo scavo si ferma, i cancelli chiudono. Nessuno oserà turbare la solitudine notturna della sacerdotessa.
In questi giorni d’estate, come in tutti gli altri giorni, si parla d’altro e il degrado del pubblico costume e la stupidità dilagante sono tali che l’indifferenza pare l’unica via di salvezza. Ma i luoghi -sconsacrati dall’incultura che rende servi – restano sacri per destino a ricordarci che se ancora esitono, e parlano, anche noi esistiamo ancora. I giovani archeologi sono volontari e sono Italiani, alieni in un’ingrata Patria: cercano la storia, quella che anche noi, troppo spesso, contribuiamo a seppellire.
È ancora Italia, si. Ma il tempo sta per scadere, ormai.
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