LACRIME NAPULITANE

Esìmio sìgnor Presìdente della Repubblica Giorgio Napolitano,

sono un’emigrante fuggita – sì, fuggita! – da Napoli trent’anni fa. Napoli più che una città è un destino che accomuna tutti i suoi figli, ed al quale non sì sfugge. Mi consenta dunque di usare, per questo mio appello, tutta la retorica possibile – se ne fa tanta inutile -, di essere barocca come le nostre chiese, piangente come le nostre Sante e rabbiosamente nostalgica come la nostra terra.

Ci sarà stato anche Lei in Villa Comunale, da bambino. La domenica suonava la banda, si ricorda? E noi, di ogni generazione a guardare affascinati il venditore di palloncini fino a quando una zia indulgente apriva il portamonete e ci offriva quell’oggetto magico e capriccioso; com’era bello, il palloncino! E se poi ci sfuggiva e volava in cielo, restavamo a guardare la macchietta di colore andar su, su, per sparire nell’azzurro. E la fontana delle paparelle, se la ricorda? Umido caleidoscopio del nostro cielo e le tate intorno, come vestali d’un ninfeo, a vegliar, facendo di maglia, che nessuno di noi ci finisse dentro. “Portate a prendere un po’ d’aria ai bambini” – perchè l’aria c’era, in quel tempo. Zucchero filato, Verdi e i napoletani vestiti a festa, come in un villaggio.

La sua scuola fu anche la mia, Liceo Umberto, e ancora la Villa compare in un fotogramma più recente: una passeggiata nei viali, prima di tornare a casa, sedersi sui libri tenuti dall’elastico per terra ad oziare all’aria aperta.

Poco verde a Napoli; la Villa reale con le sue mirabili cancellate di ferro battuto è stata per tutti il nostro giardino; il passeggio dove si intrecciavano storie e si sentiva il mare. Poi si tacque la banda. Perchè? In questi amarissìmi tempi dove la finanza uccide la musica si capisce anche che la Rotonda di Alvino, derubata delle note e del mirabolante scintillio dei fiati, fu un pessìmo segno. Dopo la decadenza una lenta, subdola razzia: fontane secche, alberi moribondi, supposte di acciaio al posto delle ferriate, casaroppoli plebei dove furono i caffè. E non mi si dica che sono stati gli incivili utenti a declassarla: loro, semmai, hanno fatto il gioco del nemico.

Io sono lontana, ma la parte migliore di me stessa – il mio cuore bambino – sono laggiù, al civico 242 della Riviera di Chiaja, che non è più riviera e non è più chiaja. Ed ogni giorno vedo – da questa lanterna magica che è il computer – distruggere quel che resta del mio quartiere e della Passeggiata Reale. E piango, Presìdente. Per l’anima di Napoli gettata all’Inferno incolpevole e per la nostra che non ha lombi e spirito per correre a salvarla. E quando noi, che siamo gli ultimi a ricordare, non ci saremo più, quando nessuno avrà più passione per raccontarla e lacrime per piangerla, Napoli non esisterà più e noi – io, Lei, e tanti – saremo nati in un posto che non è mai esìstito. Il portiere del mio palazzo si chiama Bruno. È li da più di cinquant’anni. L’estate scorsa sono passata di là, solo per fare una commissìone, senza guardare e vigliaccamente frettolosa. Era triste, Bruno, ma poi, tirando dal cassetto del gabbiotto una foto sì è illuminato d’un tratto: “Angela! guarda! O’ Presìdente! S’è fatta a fotografia o mare co i nipitini miei! Quant’è bravo, O Presìdente!”… Non per me, nè per qualche altro seccatore come me. Lo faccia per quei bambini. Scenda a Napoli, convochi tutti i responsabili irresponsabili, Comune, Regione, Sovrintendenza, e arresti questo insulto. La Villa Reale deve tornare ad essere com’era prima. Altrove si pianta un albero per ogni bambino, qui si sradicano senza pietà; e la Cassa Armonica, resterà nei libri di architettura, o la cancellerano per nascondere l’ennesìmo ladrocinio istituzionale? Non vuole Lei, Primo Italiano per ruolo e Primo Napoletano per sangue, riscattare la sua terra in nome di noi tutti? Li fermi, Presidente. Intimi a questa gentaccia di ripiantare gli alberi, restituire i nomi e le cose rubate, l’acqua torni nelle fontane. Una sua parola in nome di noi tutti che non abbiamo voce: “basta, in nome di Dio!”.

Ma faccia presto.


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