IL BANCHETTO DI TRIMALCIONE

“Una terra col solo respiro delle pietre, deserta, con acque in ebollizione,
coi resti di una storia disegnata nei vulcani spenti e semispenti; la regione
più meravigliosa del mondo sotto il cielo più puro ed il terreno più infido.”
(Johann Wolfgang Goethe, 1787)

… Così finalmente ci mettemmo a tavola, con valletti di Alessandria che versavano acqua ghiaccia sulle mani, e altri che li rimpiazzavano ai piedi e con estrema precisione toglievano le pipite. E neppure questo servizio così ingrato li faceva star zitti, ma in quel mentre cantavano. Io volli provare se tutta la servitù cantava e chiesi allora da bere. Lì pronto mi secondò un valletto con un gorgheggio non meno stridulo, e così ogni altro a pregarlo di qualcosa. Sembrava un coro di pantomima, non il triclinio di un padre di famiglia. Fu servito comunque un antipasto di gran classe, che tutti ormai erano a tavola, all’infuori di lui, Trimalcione, al quale in nuova usanza era riservato il primo posto. Quanto al vassoio, vi campeggiava un asinello in corinzio con bisaccia, che aveva olive bianche in una tasca, nere nell’altra. Ricoprivano l’asinello due piatti, su cui in margine stava scritto il nome di Trimalcione e il peso dell’argento. E vi avevano saldato ancora dei ponticelli, che sostenevano ghiri cosparsi di miele e papavero. E c’erano dei salsicciotti a sfrigolare su una graticola d’argento, e sotto la graticola susine di Siria con chicchi di melagrana.

L’automobile ha fatto “sdeng”, poi una specie di grazioso inchino, infine si è inchiodata, con stupefatta ammirazione, dinanzi all’acropoli di Cuma. Sole al medium coeli, una cinquantina di gradi all’ombra, o giù di li, l’anticiclone mitologico ci ha resi, novelli Enea, persi nella bellezza d’un sito antico che ha il nome dell’onda.

Due custodi, inviati certamente dalla Sibilla ci sono venuti incontro. Intorno alla malata si è subito allestito un consulto per pronto soccorso: inutile cincischiare, ci vuole un meccanico.

Domenica di luglio, pochi turisti temerari ad affrontare l’ascensione all’area sacra. I Campi flegrei, dove la terra ed il mare ardono scolpendo spettacolari paesaggi e fulgide messi furono dagli antichi Romani prediletti per ritemprar lo spirito e il corpo e prepararsi a nuove battaglie. Luoghi “guerrieri” anch’essi, ben decisi a difendere prerogative e bellezze dalla furia distruttrice dei nuovi vandali. Non v’è uno scripulum di campo che non celi memorie, frammenti di mura che si fanno strada tra speculazione e vegetazione a raccontare cio’ che furono, mirabili fattezze di pietra che invocano di essere viste e raccontate nell’indifferenza dei troppi.

Siamo “scesi” – come usava dire un tempo – a Villa Oteri – angolo novecentesco scampato al pattume edilizio dell’intorno – dove si perpetua la tradizione dell’antica ospitalità campana che incantò viaggiatori d’ogni tempo e d’ogni paese prima che malapolitica ed incultura imprigionassero il passato in un oblio colpevole.

Gli Dei si vendicheranno un giorno di questo imperdonabile affronto: è certo. Caronte avrà un bel daffare a traghettare all’Ade, per rendere la pariglia a politici, politicanti, traffichini e speculatori: si farà pagare lo straordinario. Ma intanto i Campi Flegrei ed i loro abitanti – figli della Magna Grecia – subiscono l’oltraggio perpetuo della devastazione, della spazzatura, dell’ignoranza saccente degli assassini del paesaggio. Facile, troppo facile vendere libracci raccontando di sangue e di connivenze, sentenziare con disinvoltura per riempirsi le tasche. Chi getta un frigorifero nel lago salato di Bacoli insozza le acque, chi vomita fiumi di retorica da tre soldi schiaffeggia le facce pulite di uomini e donne che lavorano tanto e bene per restituire onore e bellezza a queste terre. Gentilezza amore e rassegnazione nei loro occhi.

Lo spread. La crescita. I mercati. Il Mezzogiorno come palla al piede. Convegni, giornate di studio, consulenze. Ignobili signori del potere, quando tutti avrete imparato a memoria, ben legati alla vostra poltrona, l’Eneide, letto il Satyricon, le lettere di Seneca e tutte le memorie dei viaggiatori stranieri dei secoli scorsi, capirete che crescere è facile se si mette a frutto ciò che si possiede. “Con la cultura non si mangia”, qualcuno disse, dimostrando solo di non aver alcuna speranza di poter accedere al desco di Trimalcione.

Mai più catterali nel deserto, fabbriche del nulla assistito, postifici a perdere per produrre disperazione e debito pubblico. Il Sud deve ripartire dalla bellezza e dalla storia, e non domani, subito! Un grande museo vivente sotto il cielo azzurro, ogni pietra venga recuperata e raccontata, le nostre sorgenti siano fonte di salute e di benessere, i nostri frutti siano il nettare da esportare in tutto il mondo e le nostre mirabili architetture riportate alla vita. Ci sarebbe lavoro per tutti. E i dipendenti pubblici in eccesso? tutti riconvertiti alla valorizzazione di questo enorme patrimonio in ricchezza vera… mobilità d’arte.

Antonio fa il turno di notte, conosce le lingue, ha girato il mondo. E poi è tornato qui. Svegliarsi e bere un caffè ascoltando una musica barocca è un privilegio raro. Rolando ha riparato l’auto presto e bene e mentre lo riaccompagnavamo all’officina ci ha mostrato scorci di paesaggi spettacolari nonché – in ordine di merito – i pizzaioli più sapienti dell’arte dell’impastare del circondario. Nino ha 75 splendidi anni: anche lui è tornato da tempo e accompagna i turisti a fare il giro del lago con la sua barca. I Custodi di Cuma accolgono con simpatia e sussiego i giovani archeologi che vengono a prestar opera al Tempio di Giove.

Voi non sapete come si fa la crescita? No? Allora toglietevi dai piedi, e lasciate che la facciano loro. E Che Giove vi fulmini.


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