Professò, permettetemi un pensiero poetico: voi che soffrite nel budello oscuro, n’ata vota saglite pè ‘e scale che è cchiù sicuro!
Guagliù statem’a sentì, questo è il bene (disegnando alla lavagna un punto interrogativo) e questo è il male (disegnando un punto esclamativo).
Il bene è il dubbio, quando voi incontrate una persona che ha dei dubbi state tranquilli, vuol dire che è una brava persona, vuol dire che è democratico, che è tollerante. Quando invece incontrate questi qui (indicando il punto esclamativo), quelli che hanno le certezze, la fede incrollabile, e allora statev accort, vi dovete mettere paura, perché ricordatevi quello che vi dico: la fede è violenza, la fede in qualsiasi cosa è sempre violenza.
Il lavoro non è un diritto: bisogna guadagnarselo. Da ciò si desume che l’articolo uno della Costituzione va così modificato: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul tentativo di guadagnarsi un lavoro.” Affermazione che ci trova concordi: non sempre l’ipocrisia è l’omaggio obliquo alla virtù. Il problema sta nel “come” guadagnarsi il diritto al lavoro. Perché siamo certi che se ci lasciassero lavorare senza romperci troppo le scatole la disoccupazione diminuirebbe istantaneamente.
Che riforma del lavoro sia uscita dalle eminenti minerve professorali, non è dato sapere. Dalle nostre parti l’informazione è commento: impossibile sapere come stanno le cose. Si può scegliere l’opinione senza conoscere il fatto. È l’approssimazione italiana. I recensori dei libri, ad esempio, non li leggono quasi mai. Una guardatina in diagonale e via, se sei della mia parrocchia sei meglio di Manzoni, sennò sei un illetterato.
E poi, la riforma “ce la chiedeva l’Europa” e questo taglia corto a tutte le domande. L’importante è che il Prof si avvii alla battaglia campale con un faldone sottobraccio (in che lingua? inglese? tedesco? sarà variamente tradotto?), che sia fotografato mezzo sorridente con il faldone suddetto e i tecnocrati soddisfatti, e che la foto invada le redazioni di mezzo mondo.
Il cittadino? “De minimis non curat praetor” soprattutto quando questo, di razza italica, non soffre di speciali curiosità sui fatti. Si diverte di più a giocare ai Guelfi e Ghibellini pure sulle camicie di Formigoni.
Per noi curiosi le domande restano sospese: che diavolo ci chiedeva, l’Europa? Una riforma qualunque? E’ sicuro – tanto per dire – che questa famosa “Europa” sappia esattamente come funziona quaggiù? È al corrente o no delle centinaia di scartoffie vessatorie e di adempimenti burocratici che infestano la vita di chiunque voglia mettersi a fare una cosa, pure vendere il coccobello sulla spiaggia? Le regole, naturalmente, variano da Paese a Paese. Ricordo un paio di anni or sono una sollevazione di massa degli idraulici francesi contro i colleghi polacchi, rei di guastar la festa ed il mercato con le loro regole meno impegnative. E poi ci sono i cinesi, gli indiani, i venditori di collanine, gli altri, quelli che le regole non ce le hanno proprio. Obiezione: ma noi abbiamo lo stato sociale. Siamo sicuri, sicuri dico, che a forza di regole, cavillucci e retorica non sia diventato “asociale”? Se la famosa riforma contiene, come pare, norme vessatorie per chi assume precariamente, non si favoriscono in tal modo tutti quei buontemponi che preferiscono salire sui tetti invece che studiare ed andare alle riunioni sindacali invece di lavorare? La Germania cresce anche perchè ogni fabbrica si dà le sue regole interne. Se proprio questa “Europa” (vorrei proprio vederla in faccia una volta, questa qui) ci chiedeva la riforma, non sarebbe stato meglio – per una volta almeno – ci indicasse un modello più smilzo, primaverile, frizzante?
In tal modo è chiaro che l’esimia Elsa dalla facile larma ha detto il vero: guadagnarsi il diritto al lavoro è un lavoro, anzi una missione, una vocazione.
Noi che professori non siamo – posto l’assunto forneriano – avremmo concepito una riforma in tal senso: ognuno faccia come cappericchio gli pare. Precario, non precario, orari, non orari, modello polacco o cinese. Già ma poi, i sindacati, i tecnocrati e i confindustriali resterebbero disoccupati. Embè? Così è se vi pare: “il lavoro non è un diritto, bisogna guadagnarselo”. C’è tanta terra incolta, tanti monumenti da restaurare, muri da pulire. Se volete, prepariamo un elenco.
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