Continua il teatrino sulla scena della politica. Il Popolo della libertà ha preannunciato innovazioni epocali, che cambierebbero radicalmente la politica italiana. Le quali però saranno rese note solo dopo le prossime elezioni amministrative (la solita politica degli annunci? si vedrà). Per intanto l’annunzio con enfasi dell’abolizione dei “rimborsi elettorali” – che poi sono un mero cambio di etichetta, dissimulanti il più noto e antico finanziamento dei partiti (già rifiutato dal popolo in sede referendaria), foraggiamento ingiustificato, e per niente giustificabile, della famelica nomenclatura (altrimenti detta, casta), velleitaria, incapace e parassitaria. Hanno risposto Casini, Bersani e compagnia, i quali dicono che senza il contributo delle Stato la politica resterebbe appannaggio degli abbienti (una sorta di aristocrazia), che offende – manco a dirlo – il sacro principio di uguaglianza. Tuttavia ora sembrano disposti – bontà loro – a rinunciare a metà del malloppo.
L’argomento, dei costi della politica (assieme a quello della corruzione) è usato a piene mani (ora anche dai comici) da quanti si propongono di mettere fuori gioco il centrodestra (ulteriore via per giungere alla stanza dei bottoni): ne è risultato la disaffezione dei cittadini verso i partiti e di conseguenza verso la politica e verso le istituzioni. Il malcontento (intendiamoci: ben giustificato) per come la classe politica gestisce la cosa pubblica, amplificato ad arte anche da certi organi della comunicazione, sta diventando come un fiume in piena che tutto travolge. Si prevede una massiccia astensione dalle urne (minore, però, per gli aderenti ai partiti del centrosinistra, abituati ad obbedire, fedeli al richiamo della foresta). Ma la astensione, oltre a danneggiare il centrodestra – che sta consentendo la peggiore “politica del rigore”, una tassazione selvaggia senza eliminare le vere cause del debito pubblico -, danneggia proprio coloro che disertano la cabina elettorale. Viene in mente l’apologo di Menenio Agrippa (di circa 500 anni prima di Cristo), secondo cui la plebe – che si era ritirata sull’Aventino (per altri sul monte Sacro) per protestare contro il Senato che la opprimeva – fu convinta a cessare la ribellione, appunto da Menenio Agrippa, il quale fece ricorso ad una metafora: se le membra umane si rifiutano di servire lo stomaco, danneggiano se stesse, posto che lo stomaco è il luogo ove si elaborano gli alimenti per estrarne la linfa necessaria alla vita dell’intero organismo.
In altri termini tutte le parti della collettività sono necessarie perché questa viva in armonia.
Ed il partito è, come lo stomaco, il luogo in cui i cittadini concorrono alla formazione della politica nazionale: c’è, invero, un evidente collegamento tra l’art.1 della Costituzione – che attribuisce al popolo la sovranità, vale a dire il potere costituente e di governo – e l’art. 49 della stessa – che prevede il diritto dei cittadini a concorrere, mediante l’associazione partitica, alla determinazione, con metodo democratico, della politica nazionale: diretta manifestazione della sovranità popolare.
D’altra parte non si vede come si potrebbero sostituire i partiti, che sono espressione, assieme ad altre associazioni (sindacali, culturali, ecc.), di quel tessuto sociale che compone il sistema democratico, e che evita il caos o la comparsa del dittatore. Per altro, pur essendo espressione di un parte dell’elettorato (perciò partiti), rappresentano tutto il Paese, sebbene ciascuno con una propria visione dell’interesse generale. Perciò è stato detto che il partito è “parte” ed allo stesso tempo è “tutto”; così come nel Parlamento, formato da delegati dei partiti, ogni membro di esso rappresenta bensì il partito ma anche la Nazione.
Perciò abbandonare i partiti pur in mancanza di una alternativa reale ed efficace significherebbe darsi la classica zappa sui piedi. Senza tacere, poi, che i disertori delle urne sono destinati, in quanto indifesi, a subire il potere di quelli che hanno votato: agli assenteisti delle urne non resta che il mugugno, come quello del suddito.
In altri Paesi sicuramente democratici il tasso di partecipazione popolare alle votazioni non è mai elevato (come era invece elevato nelle democrazie di facciata: si diceva di maggioranze bulgare), ma ciò si spiega con la fiducia del popolo nei propri governanti, e soprattutto nella convinzione che chiunque sia il vincitore della contesa elettorale, lavorerà sempre per il bene della collettività; d’altronde i programmi dei competitori non sono mai tra di loro troppo distanti.
E allora, se ben si rifletta, il problema non è fare a meno dei partiti, ma è fare in modo che essi assolvano al meglio il compito loro assegnato dalla Costituzione: cioè essere strumento dei cittadini. Che, però, richiede partecipazione cosciente degli stessi, al fine di non lasciare il partito nelle mani di poche persone le quali, dimentiche delle promesse elettorali, possono agire nel loro interesse e perciò non dando garanzie di operare per il bene comune. Quando Alexis de Tocqueville nel XIX secolo si recò negli Stati Uniti d’America per studiarvi il sistema carcerario, restò favorevolmente impressionato dal fatto che gli americani erano assai inclini a creare associazioni, certo per tutelare gli interessi dei suoi componenti, ma sempre nell’ottica, nell’orizzonte dell’interesse generale.
L’associazione partitica postula però, oltre l’impegno, un tasso culturale nelle persone, capaci, cioè, di ben capire i problemi che si presentano di continuo, così nella vita privata che in quella pubblica, e di saper individuare le possibili soluzioni. Senza impegno e maturazione culturale i comuni cittadini sarebbero sempre vittime della demagogia irresponsabile dei capataz dei partiti. Così, per fare un esempio, i partiti sono prodighi nell’indicare le mete, spesso vere utopie (il libro dei sogni), ma sono sempre avari nell’indicare gli strumenti per raggiungerle. E’, questo, un trucco da politici politicanti, per avere le mani libere nelle scelte concrete. E tralascio le vere e proprie menzogne che hanno prostituito intere generazioni e continuano a suggestionare quanti non hanno facoltà critiche, oppure attratti dal miraggio di un mondo nuovo, incuranti delle sempre ricorrenti lezioni della storia, che si ostina ad indicarci un mondo sempre più irto di difficoltà.
Allora il problema – ripeto – non è quello di oscurare i partiti o, addirittura, buttarli a mare, ma è quello di rigenerarli, di rifondarli veramente, fare in modo che agiscano, secondo il loro dna costituzionale, quali espressioni della volontà sovrana del popolo, quindi agenti dell’interesse della collettività organizzata democraticamente. C’è però da osservare che il partito non è fatto solo di iscritti, ma comprende tutti gli elettori che lo votano per adesione al programma politico con cui esso si presenta. Ciò significa che il partito, oltre a bene organizzarsi per essere gruppo dirigente del Paese (ed è già questo compito non facile), deve elaborare un programma, fattibile e credibile da un gran numero di elettori. Specialmente in un periodo di crisi – non solo economica – come quello che stiamo attraversando, e sperimentando sulla nostra pelle, c’è un imperativo categorico: bando alle parole senza sostanza (il chiacchiericcio), bando, cioè, alla demagogia che inganna e che lascia nella palude, bando alla incapacità, spesso dovuta al deficit culturale, bando alla menzogna.
E’ l’ora della serietà e dell’impegno (efficiente) per realizzare il bene della collettività.
C’è innanzitutto bisogno delle riforme istituzionali. Sono decenni, ad esempio, che si parla di riformare la Costituzione, e all’uopo sono state istituite Commissioni parlamentari, tutte naufragate. La quale è certamente in parte datata – in quanto risente del clima di allora, su cui incombeva ancora lo spettro della appena passata dittatura -, in parte non attuata, come ad esempio, è a dirsi per la organizzazione sindacale e il diritto di sciopero -, in parte stravolta, come ad esempio per la magistratura, che è ancora configurata come ordine giudiziario di matrice fascista.
E non si tratta soltanto di riformare la seconda parte della Costituzione, quella dedicata alla disciplina dell’ordinamento dello Stato, perché anche la prima parte della stessa, quella che delinea principi fondamentali e che proclama diritti e doveri dei cittadini, andrebbe rivisitata in alcuni punti che, essendo frutto di compromesso tra le due ideologie dominanti, quella comunista e quella cattolica (quella liberale ebbe poca voce), non appare in linea con i nuovi tempi (sono passati oltre sessant’anni) nei quali le ideologie hanno perduto mordente e i problemi sono enormemente diversi.
Ora tutti (?) i partiti sono convinti della necessità delle riforme istituzionali, sebbene non vi sia accordo nel merito. La ragione è sempre la stessa: la divaricazione culturale tra gli schieramenti politici ed il differente interesse che sottende la strategia di ognuno. Perciò alcuni si vanno convincendo della necessità di procedere alle riforme attraverso una nuova Assemblea costituente per una Costituzione più adeguata ai tempi moderni; ma ben vedere non è una soluzione fattibile (io ero favorevole e mi son dovuto ricredere), sia per mancanza di tempo rispetto alla nuova legislatura, sia soprattutto perché, essendo i deputati alla Costituente delegati dei partiti, si riprodurrebbe la stessa divergenza attuale.
Soluzione più ragionevole mi sembra quella per cui ciascun partito spenda di qui alle prossime elezioni politiche un impegno per presentare agli elettori (ma anche ai suoi militanti) un dettagliato disegno riformistico, di ordine costituzionale e politico: il popolo sovrano deciderà.
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