L’origine del giudice si perde nella notte dei tempi, assume contorni abbastanza precisi solo agli albori della civiltà, quando gli uomini decisero di abbandonare il biblico “occhio per occhio dente per dente”, avendo compreso che continuare in quella pratica l’umanità si sarebbe estinta. Nacque così la figura del giudice, che si frammetteva tra gli uomini in conflitto per mettere pace con sentenze giuste, condivise anche dalla collettività.
A principio giudice era l’intera tribù (ne è memoria il termine moderno di “tribunale”), perché soltanto il popolo poteva giudicare i suoi membri ed avere il potere di imporre loro le decisioni, donde anche l’istituzione moderna della giuria, che rappresenta il popolo nel giudizio. Col tempo alla tribù subentrò lo stregone o sciamano ed infine il giudice professionale (il codice di Hammurabi, nel XX sec. avanti Cristo, contemplava il giudice monocratico e il giudice collegiale).
Nel corso dei secoli la figura del giudice ha subito numerosi cambiamenti strutturali e funzionali, è restata ferma, però, la connotazione di fondo, di soggetto deputato a comporre i conflitti e ad irrogare sanzioni ai contravventori della legge penale.
Con l’evoluzione dei costumi e del diritto venne ad emersione la figura dell’accusatore intesa ad evitare a che il giudice prendesse interesse nella causa: judex super partes. Oggi si dice giudice terzo, per dire né con l’accusa né con la difesa: il giudice è terzo anche rispetto al potere politico. Piero Calamandrei, nel suo noto “Elogio dei giudici scritto da un avvocato” (terza edizione, Ponte alle Grazie, 1995, pag. 238), ammoniva: “L’opinione pubblica è convinta (e forse non a torto) che prendere parte nella politica voglia dire, per i giudici, rinunciare alla imparzialità della giustizia.
Purtroppo, oggi, assistiamo ad una degenerazione della funzione giurisdizionale, a motivo di una crescente politicizzazione della magistratura, non soltanto per la contiguità di settori di essa o di singoli magistrati a forze politiche, quanto, anche, per il porsi come potere politico, vuoi per imporre una propria visione catartica della società, vuoi per difendere il suo conquistato ruolo egemonico nell’ambito delle istituzioni dello Stato, pur essendo solo una burocrazia, senza legittimazione popolare.
Questo tracimare del giudice dall’alveo suo naturale ha una precisa causa: l’essere lo stesso esente da controlli esterni e da rendiconti al popolo sovrano, o a chi per esso (Parlamento). Se poi si considera che il giudice non risponde nemmeno del danno cagionato alle persone nell’esercizio della sua funzione, sebbene abbia agito con dolo o colpa grave, si può ragionevolmente concludere che il nostro giudice non ha quelle connotazioni che tutte le società democratiche e progredite hanno configurato per chi è chiamato ad amministrare giustizia.
Perciò nel mettere mano alla riforma del potere giudiziario occorre rivisitare la figura del giudice, dei suoi poteri e della sua responsabilità politica e giuridica, nonché della sua professionalità. Occorre restituire al giudice tutta la maestà connessa alla sua altissima funzione, senza indulgere però ai richiami fuorvianti della foresta, cioè della sua corporazione. La quale, peraltro, certamente non è conforme alla legge fondamentale che il popolo si diede nel 1947, attraverso uomini da esso eletti, di altissimo livello culturale e tuttavia in lotta per il potere.
Venendo ora all’altro soggetto pubblico del processo, ovverosia al pubblico ministero – la cui figura è tuttora incerta e confusa, non solo nell’opinione pubblica ma anche nei politici e nei media -, è necessario un cenno a riguardo della sua origine e della sua evoluzione, per comprenderne meglio la natura ed il ruolo, non solo all’interno del pianeta giustizia ma anche sul piano dell’organizzazione dello Stato democratico, che si fonda sull’essenziale principio della divisione del potere statale.
Nell’antica Grecia l’accusatore, chiamato “sicofante”, non godeva di troppe simpatie perché, avendo diritto ad una parte del patrimonio del condannato, si lasciava andare spesso ad accuse calunniose. Anche a Roma l’accusatore professionale non godeva di molta considerazione, onde lo si faceva giurare di non agire con dolo contro l’accusato, ed avvertendolo che in caso contrario sarebbe stato condannato con la stessa pena dell’incolpato innocente (si chiamava “legge del taglione”). Ma con l’avvento dell’Impero la figura dell’accusatore si eclissò perché un delegato imperiale gestiva tutto il processo, dall’inizio alla fine.
Fu il trionfo del processo inquisitorio, che durò fino al XIV secolo, quando in Francia entrarono in funzione i procuratori del Re, dapprima nelle cause civili, quali difensori del patrimonio del sovrano; successivamente per sollecitare l’apertura dei processi (l’azione penale) al fine di riscuotere le pene pecuniarie, necessarie per impinguare l’esangue erario del Regno.
Ma altre due importanti funzioni gravavano su di loro: la sorveglianza sull’osservanza delle leggi da parte dei sudditi – compito che spettava al Re, ma che per l’enorme estensione del territorio, veniva delegato appunto ai suoi procuratori -, e la sorveglianza sui giudici indipendenti (a proposito di questa seconda funzione si ricorda la celebre metafora nella relazione al codice d’istruzione criminale francese del 1808: ”Il Procuratore Imperiale è l’occhio del Procuratore Generale come questi lo è del governo”). Ed è, questo, a mia avviso, il motivo per cui il Procuratore del Re venne istituito presso ciascuno degli organi giurisdizionali esistenti nel territorio.
Questa organizzazione dell’assetto giudiziario francese, la quale trovò una definitiva attuazione nell’ordinamento giudiziario napoleonico del 1810, influenzò molti Paesi europei, tra cui l’Italia monarchica. Infatti, il primo ordinamento giudiziario italiano prevedeva: “presso ogni Tribunale e Corte è stabilito un ufficio del pubblico ministero” (che rappresentava il potere esecutivo presso l’Autorità giudiziaria ed era posto sotto la direzione del Ministro della Giustizia).
Tutte le funzioni di pubblico ministero sono comprese nei compiti del potere esecutivo, tanto che gli uffici di Procura sono gestiti da funzionari denominati Procuratori della Repubblica (già Procuratori del Re) e loro sostituti. E, dunque, emerge non solo la separazione del pubblico ministero dal giudice, ma la divisione dei poteri dello Stato: al potere esecutivo spettano tutte le funzioni attribuite al pubblico ministero, mentre al potere giurisdizionale spetta l’amministrazione della giustizia.
Questa, che era la tradizionale struttura di pubblico ministero, anche negli altri Paesi di civil law, fu sconvolta ad opera di Togliatti nel 1946, allora Ministro di giustizia del Governo De Gasperi, che sottrasse le funzioni di pubblico ministero alla direzione ministeriale, facendone così un ufficio pubblico senza un centro direttivo, assolutamente indipendente da tutti e senza controllo alcuno, sia interno che esterno, a somiglianza della Prokuratura sovietica, da tutti indipendente tranne che dal partito comunista. Fu chiamata “la via italiana al pubblico ministero” perché non aveva riscontro in alcun altro Paese occidentale e, peraltro, costituiva una autentica anomalia perché il pubblico ministero non è titolare di una potestà (com’è quella del giudice), ma di un diritto pubblico di azione (il diritto cioè di chiedere una decisione in merito ad una accusa, che esercita).
La Costituzione mantenne questo status, ma solo transitoriamente, perché il codice di procedura penale dell’epoca assegnava al pubblico ministero alcuni compiti giurisdizionali (ad esempio, acquisire le prove, che avrebbero avuto valore nel dibattimento, limitare la libertà dell’imputato); status che sarebbe però decaduto se il futuro processo avesse configurato il pubblico ministero come “parte” senza ibridismi di sorta (come è appunto avvenuto con il codice di procedura del 1988). Ma una Commissione ministeriale, incaricata di adeguare l’ordinamento giudiziario al nuovo modello processuale, mantenne il detto status, oramai non più giustificato: quella Commissione, però, era composta in grande maggioranza da magistrati ed ex magistrati, che agirono contra legem, pur di mantenere l’unione del pubblico ministero al giudice, con conseguente sua indipendenza.
Sicché è restata l’anomalia di un pubblico ministero che può rivoltare l’Italia come un pedalino.
Certo c’è un diffuso malaffare nel ceto politico, certo c’è una caduta paurosa della legalità nel Paese, e dunque dovremmo plaudire all’attivismo dei pubblici ministeri disseminati sul territorio, ma sorge una domanda: possiamo fidarci sapendo della loro politicizzazione e delle loro ideologie ? Chi ci garantisce della loro obbiettività e del loro autocontrollo?
I Padri costituenti non si occuparono del pubblico ministero se non per prescrivere l’obbligo di esercitare l’azione penale e per prescrivere, a carico del legislatore, l’obbligo di determinarne, col futuro ordinamento giudiziario, le garanzie. Ma la successiva classe politica, egemonizzata dai comunisti, ha dato all’Italia un’autocrazia giudiziaria, la quale è un autentico pericolo per i diritti fondamentali delle persone, per le libertà politiche e per l’armonico funzionamento dello Stato.
Perciò la futura riforma dell’assetto giudiziario dovrà riportare il pubblico ministero nei limiti ontologici suoi propri, vale dire dovrà organizzare come ufficio del potere esecutivo a direzione ministeriale, ancorché con le necessarie garanzie che gli consentano di svolgere le difficili funzioni senza timori di ritorsioni. Come dispone la Costituzione.
Ma soprattutto occorre riflettere sul fatto che oggi la politica criminale del Paese è in sostanza determinata dalle singole Procure, laddove si tratta di un potere che non può che essere del potere politico, anche perché oggi la lotta alla criminalità organizzata si estende anche fuori dei confini nazionali.
Per ultimo, non ultimo, viene in considerazione l’accusato (ed il suo difensore, l’avvocato), il soggetto verso il quale si dirige l’azione penale e che è destinatario della sentenza di assoluzione o di condanna. Egli potrebbe non partecipare personalmente al giudizio, rimanere come si dice contumace, ma ciò non impedisce che il processo segua il suo corso. In tal caso il contraddittorio tra accusa e accusato si realizzerà con la partecipazione necessaria del difensore, perché la dialettica processuale è il metodo più sicuro per un accertamento credibile.
Il difensore è il soggetto (detto avvocato, da advocatus: “chiamato presso”), che assume la difesa, anche d’ufficio dell’accusato (questo non vuol dire che non sia ammessa l’autodifesa: significa soltanto la possibilità di una migliore difesa per l’accusato che non sia in grado di difendesi).
Anche la figura dell’avvocato risale agli albori della civiltà, allorché la giustizia era amministrata, come sopra ho detto, dalla tribù: anche allora chi era trascinato sotto accusa davanti ai giudici sentiva il bisogno di avere al proprio fianco un amico, per sentirsi sicuro di non subire soprusi. Ma col passare del tempo la giustizia finì con l’essere regolata da leggi, onde la funzione del difensore si giustificava anche sulla giusta esigenza di assicurare all’accusato la collaborazione di un soggetto conoscitore delle leggi. Perciò lungo il corso dei secoli l’avvocato è venuto a caratterizzarsi come un assistente tecnico dell’accusato e tuttavia la storia dell’avvocatura ha posto in rilievo come l’avvocato non sia solo questo, essendo anche un sostegno psicologico per chi, innocente o colpevole soffre nel processo e per il processo: è uno degli aspetti meno conosciuti della solidarietà umana, che ha reso più nobile la funzione dell’avvocato.
Purtroppo anche nell’avvocatura ci sono luci ed ombre: anche tra gli avvocati è dato riscontrare scarsa professionalità ed eccessivo attaccamento al denaro, onde spesso lo si rappresenta come figura cinica, interessata solo all’onorario. Segno dei tempi che tutto corrompe, ma la fiaccola dell’avvocato non si spegnerà.
Concludo questo mio brevissimo viaggio attraverso le strutture soggettive del processo penale auspicando una riflessione seria di tutti, tesa a pervenire alla configurazione di un processo che sia di effettiva garanzia per ognuno, per alta professionalità di giudici, pubblici ministeri e avvocati.
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