Persino io, che adoro l’Italia, comincio a vergognarmi di essere Italiano.
A tutto c’è un limite, anche alla divaricazione del «ventaglio» dei redditi. Non sono nato né ieri, né ierl’altro, e quindi so bene che questo ventaglio tende ovunque, per legge propria, a divaricarsi eccessivamente: questa tendenza è forse il corrispondente, in campo psicologico ed economico, di ciò che in fisica è la legge dell’entropia. Le cose, se non le guida una qualche etica, vanno giù per il percorso più facile. Ma ormai si esagera: se si vuole il peggio, si può sempre aggravare la forza anche di una legge naturale. Si può sempre appendere una pietra al collo di chi è caduto in mare. Io penso che ormai si scherza col fuoco. Anche i più luridi prevaricatori dovrebbero pensarci su. Quando le imposte superano il limite del 50%, il saccheggio eccessivo della ricchezza pubblica rasenta, e già spesso supera, la distruzione fisica di aziende, imprese, e addirittura degli operai e degli imprenditori stessi.
Noi tutti sappiamo che cosa c’è sotto. E’ diventata ormai una cantilena. La responsabilità di tutto ciò non dipende più, né soltanto, dall’abusato concetto positivistico di «carattere nazionale», né da una qualche sostituzione di «strati» sociali ad altri meno indecenti. Dipende dal malcostume indotto, inaugurato e poi coltivato da una pluridecennale vergognosa politica intesa esclusivamente alla conservazione di elettorati utili a sostenere privilegi di casta e di partito. Il cinismo è diventato un’atmosfera che si taglia a fette. Democristiani e comunisti hanno avuto una grande responsabilità nella formazione di questo malcostume. Persino la degenerazione della magistratura dipende da questa insopportabile mentalità, do ut des, e ad essa risponde. Una “logica” che è diventata, per contagio, costume nazionale: ci si permette persino di farci sopra delle teorie.
Finché i partiti conservavano almeno una parvenza di programmi differenzianti, di difesa d’un dato credo politico, la lotta per il privilegio socio-economico doveva, almeno in parte, ammantarsi dell’orpello di una qualche posizione ideale. Nei fatti, una proposta politica degna sortisce gli stessi effetti di un comportamento personale: anche se ipocrita, serve di insegnamento e finisce in certo modo coll’agire sull’uso comune. Oggi, caduta ogni prospettiva del genere, si può contendere senza pudori per il semplice, nudo potere.
È singolare come il genio italiano produca le medicine geniali a sé utili, che poi dimentica lasciando che siano apprezzate all’estero. Nel suo Potere, del 1952, il da noi ma non altrove dimenticato Guglielmo Ferrero teorizza che la società è figlia della paura. Anzi, completando Machiavelli e Rousseau, egli orerotundo afferma che le paure fondanti sono due: paura dell’orribile stato di natura, ma anche necessaria paura dell’autorità che ci salva fondando la società. È solo su questa base coercitiva che può intervenire il consenso, frutto di valori etici condivisi. In sintesi: senza un’etica, non v’è società che tenga.
Di quanto sia malandato il costume pubblico si può ormai fare una facile riprova: si avanzi in qualsiasi assise, televisiva o altra, una proposta di quelle che usavano una volta, appunto ʺeticheʺ, che erano conditio sine qua non (come in Ferrero) di un comportamento civile. Non si susciterà che derisione. Ad esempio, oggi è di bon ton, da parte d’una bella donna, dichiarare in spettacoli pubblici o in TV che «fa sesso» cinque o sei volte alla settimana. Questo esempio non è dettato da moralismo, è un semplice misuratore di costume; la condotta personale di chiunque, donna o uomo che sia, deve esser libera. Grave è invece, in ogni fatto del genere, quel che ormai è obbligatorio: il disvalore conformista si sente in dovere di pubblicizzare se stesso (è quel che oggi si chiama, con compiacimento imbecille, la ʺprovocazioneʺ). Parimenti, anche un comportamento economico vergognoso suscita ora solo sorrisi di divertito e ammirato compiacimento. Del malversatore, sentirete dire non altro che: ʺNon è mica fesso!” – un commento che è una implicita approvazione. Sì: tra di noi, di individui “mica fessi” – componenti della casta, amministratori pubblici, burocrati – cominciano ad essercene troppi.
Anche i magistrati assai spesso “non sono mica fessi”. La spiegazione è brutale, la solita: la sinistra, caduta ormai la giustificazione politica (il “comunismo”), s’è ridotta a praticare la pura difesa dei privilegi e dello status quo. Di rimando, amministratori e impiegati statali votano per la conservazione dei loro privilegi. Equilibrio tra due paure; non più prospettive etiche.
Il sistema perverso, come ogni sistema sociale del resto, ha una vigenza esponenziale. Succede tra privilegiati la stessa cosa che accade tra le singole economie nazionali: che paradossalmente, a dispetto ed anzi proprio a causa del globalismo, sono incoraggiate a incrementare il regime di concorrenza. E’ la saggezza popolare: “il denaro accorre dove già ce n’è”, “il ricco non si sente mai ricco abbastanza”. Un sistema di concorrenza che fosse tale solo una tantum sarebbe una contraddizione in termini. La sua intima legge è quella di proseguire ad esser se stesso. La concorrenza supera, ma poi riafferma, la concorrenza.
Attenzione: tutto ciò veniva e viene tranquillamente diagnosticato ed ammesso quando si tratta dei rapporti intercorrenti tra stati. Ma fino a poc’anzi non era cosa ammissibile per i rapporti tra individui. Oggi ecco invece che, mostruosamente, i singoli adottano senza pudori il cinismo internazionale. Proprio oggi che il globalismo dovrebbe insegnarci il perfetto contrario: che anche tra i grandi organismi economici vanno urgentemente rispettate norme di mantenimento, e non più di sola concorrenza. Ma è ormai ovvio che morale privata ed etica pubblica dovevano prima o poi collidere. Il globalismo ha dimostrato proprio questo: le ricchezze nazionali, non più considerabili inesauribili miniere d’oro, si esauriscono proprio come quelle personali. E’ la stessa lezione che ci proviene dall’ecologia. In tutti i campi, l’illusione che le riserve siano inesauribili si è rivelata una esiziale fandonia. Il mare può inquinarsi tutto, l’aria divenire tutta irrespirabile.
Questo non è astratto dottrinarismo a buon mercato. E’ triste, vergognosa realtà. Ci si convinca: perorare per un’etica sociale non è ingenuo, e non lo è sempre di meno. Le seriose “riforme strutturali”, cui si fa appello ad ogni piè sospinto, non sono che etica trasferita d’un grado, perché la struttura altro non fa che tendere a condizioni che poi obblighino a comportamenti etici. Dunque: appellarsi alle strutture significa in buona sostanza solo ʺrimandareʺ. Tertium non datur. Il liberalismo è questo: non limitarsi ad affidare alle idoleggiate strutture ciò che è, e non può non essere, altro che legge morale e pertanto comportamento del singolo. E’ questo il significato dello “stato minimo”.
Noi Italiani, se continua così, diverremo un popolo noto per ammettere che due centinaia di suicidî di galantuomini in pochi mesi costituiscano un “tasso di sviluppo”. E si badi: coloro che si son dati la morte non erano persone che avessero perduto le speranze di un personale guadagno; erano galantuomini che non hanno sopportato di dover tradire l’impegno umano e d’onore, di mantenere intatti i salari e dunque rispettare la vita dei propri dipendenti. Io ammiro profondamente chi si è tolta la vita perché non poteva ammettere di essere causa, sia pure involontaria, della rovina di un suo simile, di una famiglia, di un insieme di esseri umani. Di fronte ad uomini del genere non resta che genuflettersi e, forse, chiedere perdono: perché l’orrore della situazione è stato consentito anche dalla nostra collettiva inerzia.
Ed eccoci diventati la nazione che, in barba ad ogni legge di decenza, consente alla propria “casta” livelli di reddito mostruosamente alti (migliaia, milioni di euro), mentre lesina ai propri pensionati, operai, disoccupati, retribuzioni da fame, che vanno dai trecento agli ottocento euro.
Qualche mese fa, poco dopo l’inizio della “era Monti”, sono stati pubblicati gli stipendi di onorevoli, senatori, capi di grandi industrie. Cifre strabocchevoli, che persone di moralità media, in una situazione quale è quella italiana odierna, non dovrebbero accettare. Da più parti ci si è chiesti come mai proprio una delle prime mosse del governo Monti, in materia, sia stata quella di rivelare pubblicamente questa folle girandola di miliardi. Proprio nel momento del collasso dell’economia nazionale! Anche gli osservatori più avvertiti hanno pensato ad una mossa calcolata, forse una inane velleità di punizione, un colpo che qualcuno ha voluto vibrare a qualcun’altro, quasi per stimolare l’ira popolare. Io no so. Restano i fatti, che chiedono immediato risarcimento: ripeto ancora, non solo “strutturale”, come si usa dire riempiendosi la bocca di aria fritta. Il vocabolo ʺstrutturaleʺ serve per togliere responsabilità a tutti ed a ciascuno. Non strutturale perché, se le ʺstruttureʺ ormai cedono da tutte le parti, resta la barriera etica, il risanamento del costume, se non spontaneo, coatto. Ma impartire una dura lezione ai poveri, alle vittime, non è che una macabra commedia.
Questa macabra commedia esibisce aspetti di ingiustizia veramente siderale. Si pensi che l’appannaggio della nostra Presidenza della Repubblica equivale al doppio o al triplo di quelli attribuiti in altre nazioni d’Europa; e che supera di ben cinque (5) volte l’appannaggio della Casa reale Inglese. In questo caso non può pensarsi a colpe relative alla persona. Abbiamo più volte deprecato l’inefficienza pusillanime del Presidente della Repubblica, specie nella sua veste di capo della magistratura; ma l’appannaggio non dipende dal libito del destinatario. Qui non c’è colpevolismo, ma solo un ennesimo esempio delle storture e pazzie italiane. Una Italia che fa pensare non solo al CostaConcordia, ma anche all’orchestra del Titanic.
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