Finché non sapremo rincorrere i nostri sogni fino alla fine, non potremo definirci completamente liberi. (Anonimo)
Nessun uomo vive troppo a lungo quando muoiono i suoi sogni. (G. Wolfe)
Amatissimo Cavaliere,
da gran tempo ormai il silenzio è sceso intorno a “quel di Palazzo Grazioli”, l’informazione “unica” dal Foglio al Corsera ci magnifica la triplice alleanza senza contraddittorio, mentre il capo del Governo, che un po’ deve essere cinese, (tanto è stravagante il suo comportamento) ci comunica dall’Oriente che “La clisi è telminata”. Noi, invero, non ce ne siamo “accolti”.
Dunque abbiamo saputo che martedì Lei terrà un ufficio di Presidenza. È la settimana Santa, tutti sono occupati tra uffici religiosi e casatielli. Non c’è tempo né modo di organizzare una processione completa di compianto, che giunga fino alla sua magione per testimoniarLe il nostro lutto per il decesso dello Spirito Riformatore che con il suo soffio gioioso ci ha accompagnati negli ultimi diciotto anni. Ahinoi!, morir sì giovane, sulla soglia della maggiore età!
Nondimeno, poiché si blatera che siamo diventati 2-0 (speriamo non sia rimasto solo lo zero), affiderò alla bottiglia del web questo appello in extremis, nella tenue speranza che superi lo sbarramento di notabili, colonnelli, tenenti ed appuntati e giunga fino a Lei.
Sia chiaro: questo manicaretto rancido di proporzionale che ci precipiterà indietro di quarant’anni instaurando un’oligarchia partitocratica e tecnocratica, noi non la vogliamo. È la radice di tutti i mali della nostra Patria, l’ortica che abbiamo cercato di annientare con la nostra militanza al suo fianco. Non creda agli apologisti d’accatto. Per questa operazione di restaurazione infingarda non v’è consenso tra i suoi elettori. Se abbiamo resistito a tutte le intemperie, lo abbiamo fatto unicamente per compiere quella rivoluzione pacifica che avrebbe trasformato l’Italia in un’autentica Repubblica democratica fondata sulla libertà.
Con la sua uscita di scena (“Dio ci deve una spiegazione”, e Lei anche) il riposizionamento dei gattopardi è stato subitaneo. Non c’è uno strapuntino vuoto a pagarlo a peso d’oro. La nomenclatura – eliminato l’originale – si è riposizionata per succhiarci quel poco che ci resta; e non ci si venga a dire che è stata l’Europa a chiederlo. L’Europa, che nemmeno è ancora nata, per essere, ha bisogno di fondatori credibili, efficienti e creativi, non di parrocchielle consociative di morti che camminano alla ricerca di vittime impotenti. Il problema non è adattare il modello per tenere in piedi il parlamentarismo-baraccone e i suoi vecchi arnesi per garantire con l’ammucchiata una tranquillità fittizia e mortifera: il problema è liberarsi, per sempre dei vecchi arnesi. Lo fecero male i cugini francesi la prima volta nel 1789, ma dare un senso a quell’oceano di sangue e alle teste mozzate ci pensò De Gaulle, due secoli dopo, e la Francia si fece Francia. Davvero Lei pensa che si possa far l’ Italia con l’inciucione Bersani, Casini e – mi perdoni – Alfano? Immagina che quando i suoi nipotini saranno adulti “il paese che amo” sarà ancora in piedi nonostante la totale desertizzazione dei sogni, delle coscienze, e l’assassinio autorizzato della gente del “fare”?
In queste metaforiche “Idi di Marzo” Cesare è sopravvissuto. Ma è tenuto in ostaggio dai congiurati. Se Cesare tace, vuol dire che acconsente: anche il silenzio è una presa di posizione eloquente.
Ma ancora dipende da lui, e da lui soltanto, il destino della sua “gens”: si tratta di scegliere se ancora prestarsi ad essere agitato come un feticcio nel bene e nel male, e restare funzionale a questa odiosa restaurazione, oppure strapparsi dal petto i pugnali e rovesciare il tavolo. Bettino Craxi al compromesso preferì la morte. A Lei toccò, Cavaliere, l’onere di custodire la fiaccola e riaccendere la speranza. La stanchezza, il disinganno, il desiderio di tranquillità sono naturali conseguenze delle umane miserie. Tirarsi indietro è comprensibile.
Però, prima di martedì, faccia un salto ad Arcore: entri in quell’ufficio abbandonato, quello con la scritta: “1994”. Da tempo nessuno ci entra più, forse ci sarà la polvere e gli scuri saranno chiusi: faccia entrare il sole, è primavera. Troverà tante cartelline azzurre scolorate dal tempo, le apra: vi troverà le nostre lettere, le nostre foto, i documenti prodotti dai gloriosi club. Vedrà le facce della sua “gente”. Sì, siamo noi, anche se siamo invecchiati, siamo riconoscibili, se non altro per la bandiera. E in questa carrellata di “come eravamo” ritroverà quel Silvio Berlusconi, l’altro, senza capelli. Le spillette, noi, le abbiamo conservate. Ma pochi di quelli che siedono nel palazzo ne hanno una. Rivoluzione liberale… le famiglie sul prato di San Giovanni, perfino il cane, con il tricolore annodato al collare. I bimbi in braccio, il thermos del caffè, e i fogli degli appunti. Quell’Italia lì, precisamente quella, condannata a sparire, solo per aver sognato.
Può scegliere: chiamare l’intendente ed ordinare che questa paccottiglia nostalgica finisca nella spazzatura con lo stato leggero, il bipolarismo, la meritocrazia. Ma anche no.
Se sarà “no” i sognatori incalliti andranno a cercarsi un altro sogno, altrove, ed un’altra Patria. Senza sogni e senza Patria, non si può vivere. Ce lo ha insegnato Lei.
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