La vittoria nell’importante stato dell’Illinois, nelle primarie repubblicane Usa, incorona quasi matematicamente Mitt Romney come prossimo avversario di Barak Hussein Obama. Impossibile al momento fare una previsione, ma di certo i repubblicani non hanno saputo sfruttare mediaticamente questa occasione, come invece fecero i loro avversari nel turno precedente, quando hanno sconfitto John McCain. La scelta del candidato democratico fu – anche durante il durissimo scontro con Hillary Clinton – già campagna per le presidenziali, invece le primarie repubblicane sono sembrate una guerra di fazione, senza personaggi capaci di “bucare”, troppo interna e circoscritta per divenire appassionante evento mediatico e per impensierire Obama.
La partita si giocherà però su più tavoli e gli equilibri che condizioneranno l’esito della corsa alla più alta carica del governo statunitense dovranno tener presente anche del peso della lobby ebraica. Da sempre determinante per trasversalità e penetrazione nei posti di rilievo nella società americana (dal mondo dell’informazione a Wall Street, fino ad Hollywood), oltre che per l’imponente capacità di erogare fondi, fondamentali per l’elezione o rielezione di un presidente.
Diviene quindi rilevantissimo il peso della politica estera anche sul piano interno, soprattutto quella che riguarda direttamente Israele, il che non significa solo la questione palestinese, ma anche tutto il Nord Africa e il Medio Oriente. Da questo punto di vista il bilancio per Obama non può essere considerato positivo.
Pur raccogliendo l’eredità di Bush, ed essersi inizialmente mosso nella stessa direzione, c’è stata una progressiva mutazione di strategia nell’area. Intendiamoci, non è che Bush avesse sempre visto giusto: basti pensare all’Iraq. Infatti, se oggi l’Iran è una spina nel fianco di Israele e di tutto l’Occidente è anche perché gli statunitensi hanno fatto il grande favore agli Ayatollah di levargli di torno il nemico di sempre: Saddam Hussein.
Gli errori, soprattutto se valutati con il senno di poi, si possono comprendere, forse anche giustificare, ben diversa appare però l’attuale politica americana. Non si tratta solo di un isolato passo falso, ma di una intera, vasta, convinta strategia: dal ritiro delle forze militari dall’Afghanistan fino al miope ed incondizionato appoggio alle varie primavere arabe. Un atteggiamento fideistico di supporto a delle ribellioni che hanno destabilizzato quei Paesi dove il connotato laicista era più forte e si frapponeva come limite naturale all’avanzata dell’integralismo islamico. Situazione evidente anche al più distratto degli osservatori e che non può di certo essere sfuggita alla amministrazione Obama.
Al-thawra mustamirra, (la rivoluzione continua) si grida ancora in Egitto, dopo la caduta di Mubarak, ma non vi è dubbio alcuno che la direzione verso la quale sta andando il Paese sia sempre più fortemente islamica, con i Fratelli Musulmani – più moderati – a contendersi il potere con il partito salafita, più radicale. Entrambi d’accordo ed uniti però nel disprezzo e nell’emarginazione della minoranza cristiana copta.
In Tunisia le recenti elezioni sono state vinte dal partito Enhanda, anch’esso islamico. Partito definitosi moderato, ma al suo interno vi sono ampie aree di simpatia verso i salafiti, che vorrebbero adottare la sharia come legge di stato.
Legge che invece verrà adottata in Libia, dove oggi le condizioni per la popolazione sono ben peggiori di quando c’era Gheddafi. Nel Paese c’è una guerra per bande, la Tripolitania ha recentemente dichiarato la sua indipendenza (nel più totale disinteresse del mondo occidentale), negli importanti centri petroliferi di Braga e Ras Lanuf l’ordine viene ancora garantito dalle armi – pare anche con il contributo di forze Nato – sparando a vista contro qualsiasi locale si avvicini alle raffinerie, sia esso ribelle o ex lealista. Tripoli è di fatto comandata Abdel-Hakim Belhadj, esponente di al Qaeda.
A Nord del Sahel l’effetto domino sembra ormai concluso, ovunque con un rafforzamento delle posizioni islamiche più radicali. Destino che segnerà inevitabilmente anche la Siria di Hassad. Stiamo quindi assistendo ad una avanzata islamica senza precedenti, dove Obama potrebbe essere ricordato come un nuovo Maometto. C’è da chiedersi se questa sia una volontà politica lucida e consapevole oppure si tratti soltanto di conseguenze incidentali, delle ricadute determinate da scelte di carattere pragmatico, figlie di necessità energetiche e di contrapposizioni all’asse cino-sovietico.
Difficile dirlo, però rileggendo oggi lo storico discorso di Obama al Cairo assume una diversa valenza e nella corsa alle elezioni per la presidenza degli Stati Uniti la lobby ebraica difficilmente potrà appoggiare una politica estera che ha destabilizzato tutti i Paesi attorno ad Israele, detronizzando pigri potentati per sostituirli con dei nemici di Sion più agguerriti e determinati che mai.
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