LA RIVOLTA DEL GIACOBINO

Contro la sentenza della Corte di cassazione – che in conformità della richiesta del Procuratore generale Francesco Iacoviello, ha annullato quella della Corte d’Appello di Palermo nei confronti di Marcello Dell’Utri, condannato per “partecipazione esterna ad associazione mafiosa” – si è dovuto registrare una immotivata reazione di Antonio Ingroia, Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Palermo, che ha avuto l’appoggio di Giancarlo Caselli, già Procuratore a Palermo, ora a Torino.

Infatti, in una intervista al programma di Radio 24-La Zanzara, Ingoia ha detto: Dell’Utri lavorava per “Cosa nostra”, ne era ambasciatore; ed è lui l’ideatore e coofondatore di “Forza Italia”, donde l’illazione che questo nuovo partito nacque col peccato originale. Ipse dixit!
Ma, a parte il suo intimo convincimento, non suffragato da prove, sulla colpevolezza di Dell’Utri, la sferzante critica di Ingroia è rivolta alla Corte di Cassazione, cui addebita l’aver sposato la tesi del Procuratore generale, il quale – secondo lui – avrebbe messo in dubbio l’esistenza legale del reato di partecipazione esterna ad associazione mafiosa (“a cui nessuno crede più”, aveva detto).
Sennonché non sembra che sia il requirente sia la Corte abbiano gettato alle ortiche (e sarebbe stata ora!) tale ipotesi di reato, prova ne sia che l’annullamento della sentenza di Palermo non è avvenuto “senza rinvio”, che si ha quando il fatto non sussiste oppure non costituisce reato, ma con rinvio al giudice palermitano, che dovrà decidere se sussistano, o meno, le prove del reato. La Cassazione – ha detto l’Ingroia furioso – ha demolito gli insegnamenti di Falcone e Borsellino i due magistrati-eroi antimafia, morti ammazzati.

Non conosco gli “insegnamenti” di Borsellino, ma di Falcone posso dire che essendo egli giudice, non pubblico ministero, l’accusa di partecipazione esterna ad associazione mafiosa non gli apparteneva, lui invece l’aveva puntualizzata nei suoi elementi necessari (ne pose, come si dice, i paletti). Perciò la Cassazione ed il Procuratore generale si sono mantenuti fedeli all’insegnamento di Falcone: occorrono cioè le prove. Peraltro, Falcone, era ben conscio del pericolo di deviazione della repressione penale e perciò auspicava anche un controllo istituzionale sulle attività del pubblico ministero, controllo coerente con l’esperienza di Paesi progrediti (Falcone, in “il giusto processo”, 1990. pag. 167). Ecco un insegnamento di Falcone che Ingroia non conosce, ovvero non ricorda.

Inoltre, si deve osservare che il codice penale prevede, oltre al reato di associazione (non solo mafiosa) altre figure di reato ad esso attinenti, come l’assistenza agli associati (art. 418), il favoreggiamento personale (art. 378), il favoreggiamento reale (art. 379): ma sono reati che postulano ben precise condotte, mentre la partecipazione esterna ad associazione mafiosa, non essendo prefigurata dalla legge, consente l’incriminazione basata su elementi vaghi, incerti, che sono assunti nella prassi con discrezionalità assolutamente arbitraria, spesso per fini occulti. Ecco perché Ingroia, si è spinto oltre una puntuale critica alla sentenza della Cassazione: il discredito che questa ha gettato sulla fattispecie di partecipazione esterna ad associazione mafiosa con l’indicazione dei necessari elementi probatori impone alla Procura palermitana di abbandonare l’uso di uno strumento che è, oltre a tutto, contra legem (ma che ha disseminato il percorso della giustizia e per decenni, di vittime innocenti, anche illustri: cito, per tutti, Bruno Contrada, fedele servitore dello Stato; ma i casi sono numerosi più di quanto si possa immaginare).

Da qui la domanda: sono affidabili i nostri giudici? ed ancora: è affidabile la Corte di cassazione? La legge di ordinamento giudiziario prevede che “La Corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale…..”. Ma Antonio Brancaccio, allorché nel 1986 assunse l’ufficio di Primo Presidente della Corte di Cassazione, si lasciò andare ad un deprimente giudizio: la Cassazione – scrisse – secondo l’ordinamento giudiziario “svolge una funzione di garanzia nei casi individuali e, al tempo stesso, una funzione di garanzia della certezza del diritto oggettivo, ma nella realtà si è dovuto constatare frequenti e gravi oscillazioni non giustificate neanche dalla interpretazione evolutiva (Quaderni della giustizia, 1986, cito a memoria). E la situazione oggi non è certamente migliorata. Anche i giudici di merito (Tribunali e Corti d’Appello) che sono ugualmente soggetti alla legge, spesso dalla legge si allontanano sia pure per fini che potrebbero sembrare nobili (ad esempio combattere la criminalità comune e politica), ma che in realtà non sono compresi nelle funzioni loro assegnate dall’ordinamento. Giudici impegnati sono, invero, una contraddizione in termini. Infatti, la lotta ai vari fenomeni di criminalità rientra nelle funzioni del Governo, che si avvale della polizia e del pubblico ministero, suo organo, come avviene in ogni Paese in cui è rispettato il principio della divisione del potere statale: la giurisdizione ha la funzione di assicurare giudizi corretti e sanzioni eque, neutrale rispetto alle posizioni dell’accusa.

Insomma, da noi si registra un caos istituzionale e, quindi, la giustizia funziona in modo anomalo. Senza sottovalutare altre cause di anomalie, pur esistenti, non par dubbio che è preminente l’anomalo assetto giudiziario e le troppe garanzie ai magistrati, peraltro senza i contrappesi di controlli democratici e, soprattutto, senza responsabilità alcuna per l’esercizio del potere. Mi sento allora di poter condividere la nota metafora secondo la quale i mali della giustizia sono i frutti marci dell’albero avvelenato. Già si può dire che ad avvelenare l’albero furono gli stessi Costituenti, concedendo autonomia ed indipendenza assoluta alla burocrazia giudiziaria (ancorché riferite ai soli giudici): essi non previdero che il ruolo della magistratura avrebbe subito una rilevante metamorfosi in conseguenza dello Stato sociale che essi stessi avevano prefigurato con l’impegnare la Repubblica ad intervenire per eliminare gli squilibri economici, sociali e politici nella collettività. Perciò il giudice, che ha finito con l’avere un ruolo importante nel farsi del nuovo ordinamento, non è più soltanto “bocca della legge”, come Montesquieu voleva fosse, ma è diventato un sottosistema del sistema politico, sia pure nelle canoniche forme e nei limiti della giurisdizione. Alla stregua di tale prevedibile metamorfosi, l’autonomia e l’indipendenza assoluta concesse alla magistratura non apparivano giustificate, anche perché inerenti ad un potere burocratico esente da rendiconti al popolo. Ma, ciò che non fecerunt barbari fecerunt Barberini: la magistratura, attraverso il suo braccio armato (l’associazione), divenne, già dagli anni ’50, un rilevante gruppo di pressione sul potere politico (una vera e propria lobby), per il raggiungimento di obbiettivi per essa primari, uno dei quali era la sua sottrazione ai condizionamenti del potere esecutivo. Un primo risultato fu conseguito con la legge istitutiva del Consiglio superiore della magistratura (legge n. 195/1958) che, attuando finalmente la Costituzione, trasferiva al Consiglio poteri prima spettanti al Ministro di giustizia (nomina, carriera, trasferimenti, disciplina dei magistrati), ma – ecco il punto critico – la legge violò la Costituzione nella parte in cui incluse tra i governati anche i componenti del pubblico ministero, che non avevano, secondo Costituzione, qualifica di magistrato.

Si venne a configurare così un potere sovraccarico – giudici e pubblici ministeri -, che in ragione dell’autonomia e dell’indipendenza da ogni altro potere e della irresponsabilità, conquistava l’egemonia nelle istituzioni. Un potere che controlla gli altri poteri ma non ne è controllato, e che non risponde a chicchessia di come esercita le funzioni è, solo per questo, una anomalia nel sistema democratico, un modello di potere giudiziario che non ha uguale nel mondo (difatti il giudice Elena Paciotti, segretaria di Magistratura Democratica, affermò negli anni ’70 che quello italiano è un potere giudiziario d’avanguardia). Ma nessuno Stato lo ha seguito!

E non è tutto. Conquistata l’indipendenza esterna la corporazione mirò alla indipendenza interna, facendo leva sul principio costituzionale del “giudice soggetto soltanto alla legge”. Vale a dire: fu smantellata la gerarchia interna, connotato di ogni sistema burocratico, e fu attuato un collegamento dei magistrati con le forze politiche, più o meno accentuato a seconda delle ideologie che connotavano singoli o gruppi all’interno della magistratura; inoltre, fu accentuato il carattere politico dello strumento associativo, vera forza esterna della corporazione (nonostante le correnti interne che, però, si compattano allorché sorge la necessità della difesa di interessi comuni come, ad esempio, il mantenimento dell’unità organica di giudici e pubblici ministeri). Invero, acquisita l’indipendenza esterna, dal potere politico, altro obbiettivo importante fu l’indipendenza interna di ogni singolo giudice, il che ha comportato l’abbandono degli strumenti di selezione, basati sulla valutazione del merito dei singoli magistrati, cioè venne abolita la competizione fra più candidati per un numero limitato di posti, in relazione alle vacanze degli uffici, per giungere al sistema dei “ruoli aperti”: tutti i magistrati fanno carriera quasi esclusivamente sulla base dell’età. I concorsi interni servono per chi non ha l’età per progredire in carriera.

Fu la definitiva mazzata alla professionalità dei magistrati, necessaria per chi è investito di funzione sovrana, quale è l’amministrazione della giustizia. Funzione che è speciale per l’accesso in cassazione: Alfredo De Marsico, illustre giurista e avvocato di lungo corso, quando fu emanata la legge che disciplinava ex novo la normativa per la nomina a consigliere di cassazione scrisse un articolo per dichiarare la sua contrarietà alla legge, titolando lapidariamente: “Magistrati Upim”.

A distanza di qualche lustro appare evidente come avesse visto giusto: arrivano in Cassazione soggetti magari ottimi giudici di merito, ma scarsamente idonei alla funzione di legittimità (quella che viene detta nomofilachia: la tutela del diritto oggettivo). Oggi accedono in Cassazione persino soggetti che hanno svolto sempre la funzione di accusa, che non è funzione terza (si ricorderà di quel pubblico ministero che quando faceva parte del pool di mani pulite diceva: non vi sono innocenti ma solo colpevoli da scoprire, oggi siede in Cassazione), i quali, hanno un phisic du role che poco si addice a chi non deve decidere in una terza battuta del merito di una vicenda giudiziaria, ma dichiarare imparzialmente quale è il diritto obbiettivo.

C’è, poi, una ulteriore fase (ma non in senso cronologico) dell’evoluzione della magistratura italiana, che coincide con l’assunzione di un ruolo politico, progressivamente sempre più marcato specie tra i più giovani, che non è quello della collaborazione del potere, ma quello che viene definito di “contro potere”. Questo aspetto è reso evidente dal proposito di gruppi di magistrati di riscrivere, attraverso l’azione giudiziaria, la storia dei rapporti tra politici e strutture criminali, che è compito non dei giudici bensì degli storici o, al più, dei politologi (significativo è stato il doppio processo ad Andreotti, a Perugia ed a Palermo), ovvero di lotta alla corruzione dei politici. E’ quello che si può definire fondamentalismo o giacobinismo giudiziario.

L’esperienza dell’inchiesta degli anni novanta dello scorso secolo (la cosiddetta rivoluzione delle toghe) avrebbe dovuto, però, persuadere che la via giudiziaria di contrasto alla corruzione dei politici non solo non è risolutiva ma produce effetti negativi, vuoi perché sottrae energie alla lotta contro la microcriminalità comune, che è, invece più importante per la gente, vuoi perché crea l’antipolitica, cioè una deleteria disaffezione verso la politica, la quale invece è indispensabile ai fini essenziali del governo della società democratica e per evitare il caos e l’apparizione di dittatori.

Insomma, si sta verificando una deriva democratica, cui la politica deve porre rimedio, sia rivedendo l’architettura costituzionale, stabilendo le regole del buon governo – anche facendo prevalere la responsabilità di tutto il settore pubblico -, sia ristabilendo il principio della equa e coordinata divisione del potere statale, per evitare poteri straripanti o arbitrari. Fino adesso sono state concesse garanzie, forse troppe, ai magistrati, nell’illusione che così si potesse assicurare una giustizia giusta ed imparziale: ma queste garanzie purtroppo non si sono tradotte in garanzie per i cittadini. Abbiamo, infatti, processi dai tempi biblici, abbiamo un deficit di garanzia per le persone che hanno la sventura di venire a contatto con essa, specie se ci si imbatte in magistrati giacobini, che si arrogano il diritto di decidere, al posto del popolo sovrano, chi ha diritto di governare. Basti ricordare che alcuni magistrati misero fuori gioco interi partiti e imposero di annullare le garanzie dei parlamentari previste dall’art. 68 della Costituzione.

A scanso di equivoci ritengo che la repressione giudiziaria penale, cioè lotta alla illegalità, ovunque si annidi, deve esserci e deve anche essere efficace; ma, siccome ne vanno di mezzo diritti e beni fondamentali degli individui, non può essere opera di soggetti che non siano all’altezza del compito e comunque di soggetti incontrollabili e irresponsabili. Se può esserci una conclusione a queste mie accennate considerazioni essa è la necessità di una riforma della giustizia seria, informata, credibile, sulla scia delle grandi democrazie. Ma occorre un apposito dibattito pubblico, sia tra le forze politiche che tra quelle culturali, compresa quella forense e quella accademica: è l’ora di badare all’interesse generale.


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