ECONOMIA POLITICA

Si suol dire che attualmente la politica tace, mentre l’economia impone le sue leggi e impera sovrana. E’ un modo abbastanza efficace di descrivere la situazione, modo che anche noi utilizziamo volentieri, se con il termine «economia» si intende designare l’estrema difficoltà della situazione generale, e asserire che, in assenza di adeguate risposte politiche, rischia di sfuggirci definitivamente dalle mani e di imporci sviluppi troppo spiacevoli (vedi Grecia). In ogni altri senso, questa teoria del primato dell’economia sulla politica si rivela vuota: è la stessa antitesi (economia / politica) ad essere falsa. I due termini indicano solo: l’uno, l’insieme dei fatti presentati dalla realtà, che di solito sono fatti prodotti da altre volontà politiche; e, l’altro, i nostri modi di fronteggiarli. Una cattiva politica lascia campo libero a fatti che sembrano fatti bruti ma che in realtà non lo sono; una situazione scarsamente pilotata da una buona politica non è «senza politica», perché viene subito invasa dall’interessata politica di qualcun’altro. Accade qualcosa di simile a ciò che immaginavano gli aristotelici quando sentenziavano: natura abhorret a vacuo.

Tutto questo significa che, nei fatti, dalla politica non si esce. O la si fa, o la si subisce. Non si può uscirne, così come non si può saltare fuori dalla propria ombra. Si può solo, conviene ripeterlo, fare una politica buona, o una politica cattiva.

Si sente dire ad esempio, a sostegno della errata tesi dell’assenza di politica, che i partiti politici, organismi destinati appunto a «far politica», sono stati provvisoriamente messi a tacere. Ma anche questa è solo una ingenuità: affermare che si faccia, e si possa fare, politica solo nell’ambito dei partiti è pura follía. È subito evidente, basta pensarci, che si fa politica sempre ed ovunque, dunque anche fuori dai partiti; forse più fuori che dentro, se per politica si intende, come si dovrebbe, elaborazione di progetti al di là e oltre i conformismi in uso. Da questo punto di vista, anzi, i partiti possono addirittura esser visti come dispositivi inibitori che consentono di non far politica, o che addirittura impediscono di farla. Non indulgono essi, ancora e sempre, alle chiacchiere conformistiche in uso da cinquant’anni? Che cosa sono state ad esempio le Opposizioni di sinistra, dal dopoguerra in poi, se non serbatoi di conservazione, di conformismo, dunque di luoghi comuni? (Si abbia presente che qui non intendo affatto alludere a quell’altro luogo comune, tanto vero da riuscire ovvio, secondo il quale «anche chi non vota fa politica perché, senza volerlo, dà un voto ai partiti più forti». Certo, chi non vota, vota «a rovescio», ovvero a favore dell’oste avverso. Ma non è questo il punto).

Questa serie di considerazioni, che sembrano oziose, sono invece concretamente utili. Furono oggetto, tra l’altro, di una famosa contesa che Paul Valéry alla fine della guerra ebbe con diversi intellettuali europei, quando si dichiarò disgustato dalla politica e deciso ad abbandonarla una volta per tutte. Dove fu facile ribattergli che questo proposito era solo una velleità inane: dichiarando questa sua intenzione, egli già faceva politica senza avvedersene.

Insomma, dire che oggi alla guida della politica si è sostituita l’«economia» significa soltanto dire che si è allentata la cura della cosa pubblica, cura che dovrebbe essere costante. Ci si affida invece alla sola legge del gioco dei poteri, che non è mai un gioco anonimo e automatico perché esprime la «legge del più forte». Cosicché si fa una cattiva politica perché forzosamente si adotta una politica condotta da altri (solitamente, ai nostri danni).

Venendo ai casi nostri, si sente dire che « Monti non fa più politica ». Nulla di più insensato. Si può sospettare che egli faccia sua «la politica Merkel-Sarkozy» o, meglio, «la politica Merkel» («Sarkozy» è solo un’aggiunta decorativa ad uso dei Francesi); oppure, che fa sì una politica sua, ma finge di non farla, anzi di non farne… nessuna, per non farsi rompere le scatole. Ed è questa l’ipotesi più probabile. Egli fa una politica forse e più che forse concordata con Berlusconi, ma entrambi non sottolineano la cosa per le ragioni qui sopra dette: non bisogna dimenticare, ripeto, che, tranne isolati e sporadici casi, da anni la Opposizioni si sono specializzate non a ricercare ciò che può essere utile a risolvere i problemi della collettività, ma piuttosto ciò che può nuocere a… Berlusconi. Se è « buona » politica, questa, lo decidano gli Italiani.

Mi rendo ben conto che esporre le cose nel modo qui sopra adottato può apparire, oltre che ingenuamente semplicistico, anche cinico: come se si volesse insinuare che la politica non è che inganno e accordo tra furbi. La politica è ben più di questo, perché è (deve essere) un costante tentativo di regolarsi tenendo conto dei dati della situazione di volta in volta presente. Una buona politica non può non essere realistica, e cioè avere riscontro nella realtà di fatto: essa è buona se di tali dati tiene strettamente conto, riducendo i propri interventi a ciò che la situazione richiede e alle prospettive utili ch’è ragionevole adottare. Ma questo significa che una buona politica è meno libera di una politica cattiva, se per libertà si intende arbitrio e sterile attivismo.

Tutto ciò, nel caso nostro, vuol dire: se le politiche di Berlusconi e di Monti in parte coincidono, ciò non è, o non è solo, a causa di accordi intervenuti tra i due. Si tratta invece di aderire ai dati della situazione generale, che sono quelli che sono e non altri: sono le cose stesse a richiedere questa e non un’altra politica. Insomma: è una politica realistica, richiesta dai dati oggettivi in gioco. Cioè naturalmente non esclude, ma anzi facilita e poi consolida, anche un accordo tra i due principali attori del dramma.

È per questo che l’irruzione di Monti appare utile. Gli esponenti del PD ormai gracchiano in TV: «Con Monti siamo perfettamente d’accordo!» Si’, certo, ed anche con noi! Sembra di sognare! I dati della situazione sia internazionale che interna sono sempre quelli; i modi di affrontarli non possono variare più di tanto. Le Opposizioni, che avevano puntato tutto sulla incapacità e iniquità di Berlusconi, pagano ora il conto di quella strumentale fissazione. Debbono annuire a proposte spesso sue, ma che ora non hanno la firma del suo governo. Se dunque per «economia» intendiamo la durezza dei «fatti» che limitano e caratterizzano la situazione «economica» attuale, allora dire che l’economia si è sostituita alla politica è anche una precisa condanna: la politica fino a ieri vigente era una politica che, pur di esercitare una guerra di parte, deliberatamente ignorava i dati di fatto. Monti ha dissolto questa guerra di chiacchiere. E’ riuscito dove Berlusconi non poteva.

Ma perché mai Berlusconi non poteva? Risposta semplice: suscitava odi personali troppo violenti, e furiosi impeti vendicativi, perché si voleva fargli pagare il definitivo ribaltamento delle sinistre da lui felicemente attuato. In realtà, Berlusconi si troverebbe al punto d’incrocio di due diverse «insofferenze politiche»: c’è da pagare il conto della fregatura ai Comunisti, e quello della disobbedienza (purtroppo incompleta) all’Europa. Due felices culpae di cui gli siamo assai grati.

Ora che la politica può ritornare ai «fatti» e abbandonare le chiacchiere, c’è una ragionevole possibilità di speranza. È principalmente per questo motivo che il governo Monti non merita una preconcetta antipatia. Anche se Monti, come ultimamente sembra, inclina a fare stramberie. Che cosa significa mai, ad esempio, questa santa ma malsana smania di trasparenza? Perché, innanzi ad una moltitudinaria platea di pezzenti già tali o sul punto di divenirlo, spiattellare i milioni di euro guadagnati annualmente da Tizio e da Caio, dalla Ministra Tale e dal Sottosegretario Tal’altro? Sarebbe questa la linea governativa di moralizzazione!? O non si tratta, piuttosto, di pazzía nera? Bisognerebbe tagliare questi mostruosi stipendi, non limitarsi a mostrarli ai diseredati con la beffa : «vedete quanto siamo sinceri e onesti!» Ci si vergogni: la gente ha bisogno di denaro, non di esibizioni di sincerità.

Resta, per quanto riguarda l’elucidazione delle premesse e il giudizio sulle promesse, un punto oscuro: la posizione di Napolitano. Ligio come è, anche se cerca di nasconderlo, al passato – come qualsiasi preside di scuoletta di partito, insegnante, alunno fuori corso o bidello delle Frattocchie e consimili atenei dispensatori di aria fritta -, la sua coazione a ripetere sembra realmente quella della prudente obbedienza. Ma – forse ci illudiamo ? -, non sembra che ora come ora egli sia ancora una pedina importante sullo scacchiere europeo. Ha fatto tutto il danno che poteva, perché ha detto «sì» quanto basta; e, per la questione della magistratura, che è la sola veramente importante di cui potrebbe e dovrebbe severamente occuparsi, non sembra che abbia la forza e la statura sufficienti alla bisogna. Anche qui c’è sotto qualcosa che tutti sanno, ma nessuno sa: forse la gratitudine è la virtù dei deboli.


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