MALA TEMPORA CURRUNT

Così sentenziavano gli antichi romani quando le cose non andavano per il verso giusto; in casi eccezionali nominavano un dictator, che durava in carica per sei mesi (Marco Furio Camillo fu nominato per cinque volte dictator, l’ultima fu per salvare Roma dai Galli). Da noi i mala tempora sono connotato endemico che siamo abituati a sopportare anche quando le cose volgono al punto di far temere il peggio o quando sembra che spiri aria di rivoluzione: ma finiamo sempre con l’adattarci all’avversa sorte, perché siamo maestri nell’arte di arrangiarci, da secoli temprati alle vessazioni da qualsiasi parte provengano e persino dall’estero. Perciò in Italia, almeno in questo secolo, la rivoluzione non scoppierà.

Attualmente – ci è stato detto – le cose sono messe veramente male e che stiamo sull’orlo di un precipizio: non abbiamo capito bene quale grave pericolo incombe, ma l’allarme è venuto anche dal capo dello Stato. Che fare? Intanto il capo dello Stato ha nominato il dictator, con il compito appunto di salvare la patria, ma prima lo ha fatto santo (senatore a vita). Il quale santo, dopo essersi scelto una serie di collaboratori santini (ministri e sottosegretari), si è messo di buzzo buono, incurante della diffusa contestazione che esplodeva a seguito di provvedimenti che il santo andava adottando, o annunciando. Del resto – avrà pensato – gli italiani non badano all’interesse generale ma al proprio particulare non all’interesse generale e, quindi, è giusto che gli imponiamo sacrifici; i quali servirebbero non solo a risolvere la grave crisi economica, ma anche a realizzare una metamorfosi dell’homo italicus, nel senso di fargli considerare l’interesse particolare entro l’orizzonte dell’interesse generale.

Il fine giustificherebbero i mezzi. Apprezziamo l’intento, anche se ci pare da iscrivere nel libro dei sogni, ma il popolo che ne dice? Ecco il problema. A parte la considerazione del merito in ordine a molte delle scelte fin qui operate dal “santo”, resta il fatto grave che questo Governo – che pretende da noi lacrime e sangue – non è conseguenza di una decisione canonica del popolo, quindi non ha legittimazione per imporre ai cittadini alcunché. A questa obiezione si è risposto che la legittimazione del Governo proviene da una nomina del capo dello Stato e dalla fiducia che il Parlamento gli ha concesso. Qui il problema tocca il punto più dolente: dobbiamo piegarci alla illegittimità costituzionale e dobbiamo consentire, senza saperne esattamente la ragione, che i nostri rappresentanti facciano scempio delle nostre volontà espresse nella cabina elettorale? Quando la Costituzione è calpestata dagli eletti e perfino da colui che ha giurato (art. 91 Cost.) di osservarla, mala tempora currunt per la democrazia.

Peraltro, le dimissioni di Silvio Berlusconi da capo del Governo dovevano essere accettate (o respinte) dal Parlamento, sia perché ne fossero chiarite al popolo sovrano le motivazioni, sia per la conclusiva ragione che la rinuncia della leadership, assegnata direttamente dal popolo, non poteva avere effetto che a seguito di decisione del Parlamento, cioè dei rappresentanti del popolo: è il Parlamento che concede e revoca la fiducia al Governo (art. 94 Cost.).

Invece, Giorgio Napolitano, presumendo di essere il Re Sole o, comunque, equivocando (mi auguro: in buona fede) in ordine ai suoi poteri di presidente di un regime parlamentare, ha messo in quarantena il Parlamento ed ha deciso, alla chetichella, di nominare un “suo” Governo, sia o non sia vera, l’accusa che abbia agito su imposizione di Angela Merkel (fatto sta che della telefonata della Merkel non fu messo al corrente Berlusconi, capo del Governo, come sarebbe stato costituzionalmente corretto). Anche la giustificazione che il Presidente ha dato del suo operato – l’aver agito in uno stato di necessità e di estrema urgenza – non sta in piedi, perché il Governo aveva preparato un provvedimento per fronteggiare la crisi economica e per ridurre entro il 2013 il debito pubblico, come ci veniva imposto dalla Banca centrale europea con lettera del cinque agosto precedente.

D’altronde che non stessimo con l’acqua alla gola, o per usare altra metafora, sul punto di cadere in un precipizio, è dimostrato dalle circostanze sia del tempo (solo dopo oltre due mesi) che del contenuto (poca cosa rispetto al paventato pericolo) dei provvedimenti presi dal Governo salvifico. E poi non abbiamo beni, mobili e immobili che garantiscono pienamente il debito pubblici? Peraltro, Silvio Berlusconi ha confessato di aver gettato la spugna perché “c’era un attacco ossessivo nei confronti del nostro governo e del presidente del Consiglio in particolare, cui si addebitavano le colpe della situazione degli spread e della crisi delle borse”.

Tutto vero, ma non è tutta la verità, perché egli era fiaccato, anche moralmente, dalla ingiusta persecuzione giudiziaria e dall’essere osteggiato da un blocco di poteri, comprensivo anche di alcune istituzioni (ad esempio, la Corte Costituzionale), ma soprattutto dal vedersi tradito da persone che a lui dovevano le loro fortune e dal fatto che Giorgio Napolitano, presidente del Csm, nulla aveva fatto a tutela del Governo, organo costituzionale, assalito, in modo certamente non democratico e legittimo, da una magistratura politicizzata.

Insomma, tutta la vicenda ha costituito un grave vulnus alla Costituzione ed ha sconvolto ab imis il regime democratico, già di per sé traballante. Mala tempora currunt, dunque. Nella sua confessione Berlusconi si è lasciato andare anche ad altra deprimente, quanto realistica, affermazione: non possiamo togliere la spina al Governo Monti perché “non c’è una situazione alternativa che promette di essere positiva” e, d’altra parte, ha continuato, c’è la necessità di nuove regole, senza le quali sarebbe inutile tornare al Governo, persistendo la ingovernabilità del Paese. Non è dato sapere le motivazioni di tale giudizio tranchant, ma è facile coglierle nella realtà del sistema Italia, che le vestali della democrazia o non vedono o fingono di non vedere.

Invero, nel sistema politico italiano convivono – si fa per dire – due schieramenti politici: l’uno integrato, pur con tutti gli aspetti negativi che lo connotano, nei sistemi liberaldemocratici, espressioni della civiltà occidentale; l’altro ha bensì accettato le regole della “democrazia borghese”, ma in realtà conserva intatto il suo dna di partito antisistema, per il quale gli avversari politici sono nemici, da eliminare con ogni mezzo. Per questo il Paese è ingovernabile, e tale resterà fin quando i comunisti italiani non diventeranno sul serio, effettivamente, socialisti europei.

Che i comunisti non siano cambiati nella sostanza è dimostrato dal fatto che, nel 2006, quando vinsero le elezioni, prevalendo di poco sul centro destra, portarono al Quirinale, il loro compagno Giorgio Napolitano, pensando che lo stesso avrebbe sentito il richiamo della foresta, e rifiutando l’offerta del centro destra di una scelta condivisa che avrebbe conferito maggiore rappresentatività all’alto organo. E, poi, a parte l’inesistenza di una qualche progettualità di stampo socialdemocratico per governare una società occidentale, complessa e conflittuale, inserita nel sistema capitalistico – che genera ricchezza ma anche diffuse disuguaglianze – resta l’antica strategia comunista della via giudiziaria per la conquista del potere (il Craxi anticomunista fu posto fuori combattimento dai magistrati milanesi, gli stessi che perseguono da oltre tre lustri Berlusconi, fiaccandolo moralmente, peraltro senza riuscire a provarne la colpevolezza.

Non avrei voluto parlare qui di un altro aspetto, quello della giustizia nel nostro Paese, perché me ne sono più volte occupato anche su “zona di frontiera”. Ma la “Relazione sullo stato della giustizia” del primo presidente della Corte di cassazione, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, mi ha indignato e mi ha convinto ancora di più che nel nostro Paese anche con riferimento all’amministrazione della giustizia (in nome del popolo) mala tempora currunt.

Cosa ha detto di nuovo l’alto magistrato, coperto di ermellino, presenti il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio ed il Ministro di giustizia, oltre una folta schiera di magistrati e avvocati ? A parte la solita denuncia dei mali della giustizia (la giustizia lumaca, l’enorme arretrato, il del disumano trattamento carcerario, eccetera ed a parte, come sempre, nessuna autocritica ma difesa ad oltranza dell’ordine giudiziario, ha negato il fenomeno della politicizzazione nella magistratura (come può – si è chiesto – un magistrato, formato nel culto dell’essere superpartes, sentire dentro di sé il bisogno di parteggiare in politica?).

Pura ipocrisia o non era al corrente di ciò che sta avvenendo a Milano, ove i giudici, nell’ansia di giungere alla condanna di Berlusconi per un delitto in via di prescrizione imminente (fra una decina di giorni), hanno violato il diritto della difesa di far deporre i testimoni a discarico, come è prescritto oltre dalla Costituzione (art. 24: la difesa è diritto inviolabile) anche dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo? E se i difensori invece di proporre istanza per la ricusazione dei giudici (che a mio avviso lascia il tempo che trova) abbandonassero la difesa motivando, appunto, l’abbandono con la violazione dei sacrosanti diritti della difesa? Probabilmente l’alto magistrato non è neppure al corrente di come funziona (male) anche la Corte che egli presiede. Ma, tornando alla Relazione, si percepisce nettamente l’esultanza dell’ermellino magistrato per le dimissioni di Berlusconi (“è mutata l’atmosfera politica e si sono diradate le nubi che si erano addensate sul nostro impianto costituzionale”). Come dire scampato pericolo (per la corporazione) per il tentativo di riforma della giustizia. Ed ha ribadito che i rapporti tra pubblici ministeri e giudici devono restare gli stessi di oggi. In definitiva: “il modello deve restare quello caratterizzato dall’indipendenza dei giudici e pubblici ministeri, sintonizzato con l’Europa (ma sono anni, anzi decenni, che l’Europa ci esorta a separare il pubblico ministero dal giudice, come avviene in tutti i Paesi).

Stupisce che un magistrato all’apice della carriera mostri di non conoscere la Costituzione (quella deliberata dalla Assemblea costituente) e la situazione della giustizia in Europa, nonché i principi fondamentali della democrazia, quali la responsabilità per l’esercizio del potere e la separazioni dei poteri statali, fondamentali del costituzionalismo moderno, a partire da Montesqieu. Non poteva mancare l’accusa alla classe politica di volere la riforma della giustizia per il “malcelato intento di ridimensionare il controllo di legalità” sul potere politico.

Mi è tornato alla memoria un significativo episodio verificatosi nel 1947, all’inaugurazione dell’anno giudiziario: il Procuratore generale, Massimo Pilotti, teorizzò il potere giudiziario come potere di derivazione divina (non c’era ancora la Costituzione per la quale ogni potere deriva dal popolo), avente la sacra missione di esperire il controllo nei confronti di tutti, semplici cittadini ed anche rappresentanti delle istituzioni. Si dice che a quel punto il presidente provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, fattosi rosso in volto, fu tentato di abbandonare l’Aula. Ho voluto ricordare l’episodio perché riecheggia nella Relazione del primo presidente della Cassazione l’opinione di un ruolo della magistratura – controllo di legalità sul potere politico – che non esiste nella Costituzione e nemmeno in altri Paesi: è una invenzione dei magistrati per giustificare il loro superpotere.

La maledizione dei mala tempora – che continua ad aleggiare sotto i nostri azzurri cieli – dovrà essere spazzata via per rendere possibile il cambiamento e dare un futuro più sereno alle nuove generazioni. Certo non è compito semplice, né facile, anche perché le nuove regole, necessarie al cambiamento, sono osteggiate dalla sinistra e quando sono attuate dal centro destra non riescono a superare il referendum confermativo, perché i comunisti con il loro grande ed efficace apparato propagandistico riescono con la disinformazione a dissuadere gli elettori a recarsi alle urne. S’inventano di tutto per terrorizzare gli elettori. Quando si riuscirà a capire che affastellare in un solo corpo diverse leggi di riforma costituzionale disorienta gli elettori? Non ha insegnato niente la riforma del 2005, che non venne approvata in sede di referendum confermativo? Se la riforma avesse riguardato solo il numero dei parlamentari, la legge sarebbe stata confermata dal voto popolare, che da sempre è contro il Parlamento pletorico, inefficiente e costoso.

Pertanto, mala tempora currunt, a meno di una evoluzione culturale degli italiani, capace di costringere la classe politica ad attuare riforme giuste e di ampio respiro. Non è più il tempo di pannicelli caldi, palliativi vari, compromessi al ribasso per salvare interessi particolari: occorre la lotta (ovviamente incruenta) per l’affermazione di principi liberali sui quali si fondano le grandi democrazie. C’è tutto il tempo per riorganizzarsi e concepire un nuovo progetto di Stato e di governance, ma è necessario che siano coinvolte nell’opera riformatrice le forze veramente liberali, perché questa non resti impaniata nella cerchia dei ciarlatani di corte. E’ questo un discorso che va fatto in modo approfondito, anche tra il popolo affinché gli elettori decidano informati. Riservo un ulteriore intervento ad hoc, anche al fine di creare un movimento di opinione sulle riforme istituzionali migliori, per tempi migliori.


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