UN KING KONG DELLA CULTURA

Discuto qui, stanco dei guai che stiamo sopportando, un tema che per pochi minuti faccia «cambiar dolore» anche al lettore se, come spero, troverà tale tema interessante come l’ho trovato io. Il tema è : una soddisfacente definizione del concetto cultura.

Necessaria prefazione: alquante parole sul sottoscritto. Ho da dire poco: come tutti, anch’io cerco di rispettare me stesso, ovvero di non comportarmi in modo che poi giudicherei male. Non mi sento affatto uno dal cervello elastico, ma so bene che la cultura è una cosa seria: l’amo, io poco colto, perché da essa mi attendo quel che attendiamo tutti, ovvero di intuire il «senso» del nostro cifrato labirinto. Ma ciò, nei termini della aurea mediocritas che mi è stata assegnata. Ad 82 anni, dei problemi di «vanità» non mi importa una bella ficazzana (come in quel di Cosenza chiamano il fico).

Ciò invero dà una certa forza : quella di giudicare con libertà. Il pericolo di errare ovviamente incombe, ma che importa? Quando giungerà il dies irae, un angelo che forse sarà napoletano mi dirà : «E brav’o guaglione!» oppure: «Leona’, ma quann’ si’ féss!».

E con ciò bando alle chiacchiere. Mi è capitato giorni fa di imbattermi in alcune dichiarazioni di Umberto Eco, colui che – con molto rispetto – oso definire “il King Kong” della cultura italiana, pregiato specie all’estero (in Francia, p.es.), dove – similmente alle forme di parmigiano, al panerone, al barolo e alla «pizza» -, egli si trova al primissimo posto nella lista delle nostre esportazioni. Lo rispetto proprio perché è un uomo di cultura (nel senso classico, non in quello ch’egli stesso propone), e che cosa amare, tolta la cultura? La cenere dei nostri giorni?

Bene; egli tuttavia non mi convince perché ragiona utilizzando contenuti già quasi vecchi quarant’anni fa, e afferma con complicatezza cose semplici, di quelle cui allude il mai abbastanza lodato Kürnberger («tre parole bastano», dice). Come scrittore poi, mi convince ancor meno: è un Io un po’ troppo grosso. Quando parla (ho seguito anche sue conferenze) appare chiaro come il sole che pensa di dare pareri definitivi: «Dissi; e ora tacete».

Ora vorrei duellare con lui sia pure a braghe tremanti, perché le dimensioni sono troppo dispari: egli è una specie di internazionale Buddha -«bamiyan» della cultura; io invece sono un «signor Nisciuno», un Davide, che pero’ non intende scagliar sassi contro alcun Golia. Dunque: Eco parlava di cultura e, a domanda, rispondeva che, stando alle novità assodate dalle «scienze umane», per parlare di questa cultura non basterebbero 5-6 mesi. Questo proemio già faceva venire una forte nostalgia del signor Kürnberger. Ma vado avanti: la cultura, diceva, risponde al vissuto del singolo, alle sue occupazioni, sentimenti, interessi, è il di lui «ideario»: per cui è ad es. lecito parlare di «cultura dell’agricoltore», di «cultura del soldato», «del diplomatico», etc. Con tutte le professioni che esistono al mondo, ora capisco perché «ci vorrebbero mesi»! E qui mi pare che ciò voglia dire che, certo, ogni uomo vede le cose a modo suo, e ammobilia la sua vita e il suo cervello con ciò che gli suggerisce la sua esperienza quotidiana; ma a me, questa definizione eistenzial-sociologico-psicologica non va affatto a genio: non è un po’ troppo democratica, e docile all’intimazione della poli-correctness? Proprio ad Eco, che immagino si occupi un po’ anche di lessicografia e pertanto di sinonimi, non è mai venuto in mente che a questo modo «contenutistico-descrittivo» di designare la cultura meglio risponderebbero altri vocaboli: p.es. «il mondo del soldato», «la vita del contadino», etc ., lasciando al termine cultura il significato storicamente kat’exochèn? In questo vecchio senso autotelico (come dice Rosario Assunto), senso che io prediligo, cultura significa interesse per un oggetto del mondo, preferibilmente ma non esclusivamente il mondo delle idee, che dia un senso all’esistenza; fare, come dice il Vinci, ‘dell’amore conoscenza’, sforzandosi di conoscere quanto più è possibile intorno al prescelto argomento». Col vantaggio, inoltre, che un argomento (dirò ora: culturale) lungamente sviscerato e meditato (questo Eco lo sa bene ex officio) matura l’animo dell’indagante e attrae argomenti affini, sconfina in campi detentori di chiarimenti aggiuntivi, crea «ponti» e «consonanze» che lentamente fanno di lui quel che si dice «un uomo colto». Ne ho conosciuti alcuni, io, e il loro ricordo ancora mi commuove: Gino Magnani, Rosario Assunto, Raffaello Franchini, Tammaro de Marinis, Fausto e Benedetto Nicolini, Albert Soboul, Américo Castro, Dámaso Alonso, Xavier Zubiri, Wiesengrund Adorno, Roberto Bazlen, Italo Alighiero Chiusano, Lienhard Bergel,… e poi, oggi, pochi ma buoni e felicemente vivi, ecco Vittorio Sgarbi, Massimo Cacciari, Jean-Pierre Friedman, alcuni vescovaccioni esperti in neoplatonismo, etc. etc. (Questa lista non mi fa vanto: li ho conosciuti, tutti o quasi, per merito altrui; e snócciolo il suddetto rosario solo per certificare che gli «uomini di cultura» ho avuto modo di ammirarli da vicino).

Io oserei a questo punto rovesciare l’accennata definizione, da Eco largita al volgo piecoro e sciocco, e dire senza porre indugi: «è uomo di cultura colui che riesce ad uscire dallo steccato della ‘cultura’ sociologica che gli spetterebbe secondo il dettame psico-socio-esistenzial-strutturalista alla Eco, mandando una libera pernacchia a tutti i negatori dei significati olim in uso». Più alla svelta: «Dicesi uomo di cultura colui che riesce a liberarsi dalla ‘cultura’ a lui affibbiata dal ruolo sociale, professionale etc. come vorrebbe Eco». E qui mi viene in aiuto una pregnante, geniale definizione che Wiesengrund Adorno dà della nuova cultura : E’ essa «la cultura decaduta a ‘cultura’».

Per perfezionare la garanzia della mia mancanza di vanità, aggiungo l’informazione seguente: di fronte a uomini di tanta scienza, io sempre mi sono limitato ad osservare ed ammirare silente, simile in ciò a quel che a Napoli definiscono «‘O pesce pigliato c’a botta». E con ciò saluto Umberto Eco e mi ritiro, prima che lui, munito di lente magnificante, magari mi individui e fortemente disprezzi, senza pero’, spero, addirittura schiacciare me pulce con possente astragalo.

Colgo l’occasione per un’informazione secondaria: Eco, come già fece Sartre, minaccia di espatriare. Embè? O che anche lui, come appunto fece Sartre, si diverte, sadico, a spaventarci?

Senta me: resti qui con noi, e «espatrii» invece tutte le stupidaggini che nella nostra ‘cultura’, purtroppo, circolano.


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