Un osservatore esterno che guardasse al nostro Paese potrebbe pensare che l’Italia si sia capovolta. Esponenti tradizionalmente più vicini alle posizioni liberali protestano e unanimemente condannano l’operato del governo Monti, che afferma di operare per le liberalizzazioni. Susanna Camusso, leader Cgil, dopo le convinte partecipazioni alle manifestazioni — di profondissima valenza sociale — quali “Se non ora quando?”, viene in soccorso al governo opponendosi alla rivolta dei Forconi, allo sciopero dei Taxi, dei pescatori e di quello dei Tir parlandone come di proteste in “difesa delle corporazioni”.
Sarebbe interessante conoscere quale rendita di posizione difendano gli autotrasportatori. Un viaggio di un Tir da Messina a Milano di ortofrutta viene pagato 1.800/2.000 euro ai quali devono essere subito sottratti i costi d’intermediazione/carico pari a circa 300 euro, 170 di traghetto, altri mille se ne vanno per il gasolio, 300 di pedaggio autostradale e, per ultimo, l’ingresso/scarico al mercato di destinazione quantificabile tra i 20 e gli 80 euro. Ovvero, se va tutto bene e il camionista è riuscito a consegnare la merce entro le usualmente 18 ore pattuite da contratto e non è così incorso in alcuna penale, multa, esplosione di pneumatico, rottura di sorta e non ha mangiato nemmeno un panino può sperare di far ritorno nella sua Sicilia — dopo due giorni — con la bellezza di circa 150 Euro in saccoccia. Lorde.
Certo, può sperare di trovare qualcosa da trasportare da Milano a Messina, avrà un rimborso sul carburante pari a 190 litri per ogni 1000 consumati — dopo tre mesi e solo passando attraverso un sindacato o associazione di categoria, quindi pagando -; inoltre, dalle recenti assicurazioni del ministro Passera, potrà contare su una riduzione dei pedaggi autostradali ancora vaga, che alcuni indicano pari a circa il 13%; ma con questi valori in gioco, significa lavorare in perdita secca. La rotta Sud-Nord è pure privilegiata, perché quella Est-Ovest deve fare i conti con la concorrenza dei camionisti sloveni, croati, romeni, ecc., i quali hanno minor costi del personale, di gestione del mezzo (meno controlli e burocrazia) e di carburante, che pagano circa 80 cent/litro.
Questa protesta sarebbe una difesa dei privilegi di corporazione? Piuttosto assomiglia ad una rivolta per esasperazione. Chi guida il Paese non si rende minimamente conto dei salti mortali che tutte le categorie di lavoratori non protetti devono compiere per tentare di sopravvivere. E non se ne rendono conto i sindacati, la Confindustria, la politica e in genere tutti quei cittadini che, indignati, protestano per i supermercati vuoti, la penuria di carburante e l’illegalità della rivolta.
Trasportounito-Fiap, unica sigla ad aver appoggiato la protesta dei Tir, ha annunciato la fine dello sciopero per venerdì, e per almeno trenta giorni – come da termini di legge – non potrà indirne altri. La partecipazione, massiccia e spontanea, è andata però ben oltre ai soli iscritti a questa sigla, quindi non è affatto detto che la rivolta si esaurirà venerdì. Il ministro Passera dovrà trovare un’altra strada per sciogliere il nodo, aumentando le agevolazioni fin qui promesse, e non basterà il pugno di ferro voluto dal ministro Cancellieri che, per la prima volta, ha indirizzato le forze dell’ordine verso atteggiamenti poco comprensivi e affatto collaborativi.
Il Paese sembra capovolto, si diceva, ma a ben vedere non lo è affatto. Semplicemente molte categorie non ci stanno a farsi prendere per il naso. Non basta chiamare “liberalizzazioni” delle riformicchie di dubbia o alcuna utilità perché lo siano davvero. Nessuno difende delle rendite di posizione e delle vere liberalizzazioni sarebbero ben accette, ma la mancata competitività del sistema-Italia non dipende da queste corporazioni (taxi, farmacie, autotrasportatori, pescatori, allevatori, coltivatori), come il costo del carburante non dipende né da Ahmadinejad né dal fantasma di Gheddafi, ma sono causate dalle accise. Sono le tasse – dirette e indirette – e la burocrazia che mettono le imprese fuori gioco.
Fate un piccolo esperimento. Andate in una qualsiasi camera di commercio per aprire una attività. Non potrete farlo. Vi verrà chiesto un numero di conto corrente, ma questo non potrete ancora averlo perché la società non è stata ancora costituita e in banca non vi possono dare un numero di conto senza partita Iva. Poi vi servirà la Pec (Equitalia deve poter risparmiare sulle notifiche). Quando avrete perso una giornata a correre tra un ufficio e un altro, senza aver ottenuto nulla, vi toccherà arrendervi e andare a Canossa da un commercialista (questa sì che è una corporazione, ineludibile, dal costo aggiuntivo obbligatorio), che telematicamente farà tutto per voi. Attenzione però, perché il calvario sarà appena all’inizio e avrete a che fare con una infinità di regole, balzelli, norme e adempimenti. Alla fine di tutto ciò (che in realtà mai finisce) sarete sollevati, contenti di poter finalmente esercitare la vostra attività. Non spendete nulla però, perché starete in pace solo uno o due anni, poi vi arriveranno le tasse e l’anticipo sulle stesse delle quali il commercialista vi avviserà solo il giorno prima della scadenza: “Buongiorno, sa che domani ha l’acconto Irpef e — gioisca! — grazie a Monti questo sarà solo dell’ 82% invece che il 99%?”. Poi vi dirà una cifra da svenimento, che voi non avrete nemmeno se venderete tutta l’attività, moglie compresa, e maledirete il giorno di essere nati in Italia.
Adesso vi racconto come funziona in un Paese civile, l’Austria, ma di certo non l’unico. Un mio amico viennese, ma che aveva studiato architettura a Venezia, dopo aver fatto il praticantato presso un importante studio triestino si era messo finalmente in proprio. Iniziò ad esercitare sia nel suo Paese d’origine, sia in Italia, aprendo regolare partita Iva, iscrizione all’albo, ecc. Incontratolo dopo un paio d’anni mi chiese, guardandomi con compatimento, se per caso in Italia fossimo tutti pazzi. Tra tasse, commercialista, le più disparate norme da ottemperare (e pagare), spese varie andò in perdita. Per di più voleva fare l’architetto non il burocrate. In Italia non era possibile lavorare, chiuse l’attività e continuò ad esercitare solo da Vienna. Le tasse in Austria, mi spiegò, si pagano così: si prendono tutte le fatture emesse, tutte quelle ricevute, le spese varie — finanche i conti del ristorante o i biglietti dei treno -, si fa un bel pacchetto e lo si manda all’ufficio delle imposte. Dopo qualche tempo si riceve di ritorno quanto inviato, unitamente al conteggio di quanto bisogna pagare. Fine della storia. Non solo è più ampio lo spettro delle spese detraibili/deducibili e complessivamente più basse le imposte, ma non si è obbligati a fare da ragionieri per lo Stato, perdendo tempo, soldi e correndo pure il rischio di venir mazziati in caso d’errore.
Ecco, cari signori governanti, tecnocrati obnubilati da un’idea d’Europa che non si sa quale sia e per la quale state definitivamente affossando questo Paese, questo è quanto si vorrebbe, non altro. Ma voi questa strada non volete percorrerla e sapete perché? Perché nel momento in cui anche sareste capaci di concepire e attuare un simile ordinamento, dovreste vergognarvi di quello che chiedete agli italiani che lavorano del proprio e vi rendereste conto che quanto pretendete fiscalmente è iniquo e insostenibile per chiunque.
Allora meglio parlare della Costa-Concordia, meglio colpevolizzare fantomatici e ricchissimi evasori, affossatori del popolo, dipingere una rivolta per fame come egoismi di corporazione, meglio cercare di scatenare una guerra tra poveri per non essere voi – unici veri colpevoli – a dover pagare, per poter spremere ancora chi non ha più cosa dare, continuando a mantenere istituzioni inutili, pletoriche ed inefficienti. I partiti politici, apparentemente defilati, sono in realtà i principali colpevoli, quelli che garantiscono l’ossigeno a Monti e permettono lo scempio in atto.
Quando la gente si renderà conto di questo, invece di prendersela con chi non fa lo scontrino, forse indirizzerà la sua rabbia verso i veri responsabili e finirà questo artefatto clima da Stato etico. E forse allora si potrà sperare di costruire un Paese che probabilmente non diventerà mai ordinato come l’Austria, ma almeno non sarà una provincia del Burundi. Con le ovvie e dovute scuse al Burundi.
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