Nei giorni scorsi si è avuta l’ennesima esternazione del Presidente della Repubblica: questa volta in difesa della Sua decisione di dar vita ad un governo di tecnocrati. Interloquisco, ma non sull’analisi della situazione economica e sulla idoneità di questo Governo a salvarci dal default (al riguardo nutro forti dubbi), sebbene sulla questione se possa ritenersi esistente l’abuso di potere. Napolitano ha detto che “solo con grave leggerezza si può parlare di sospensione della democrazia, la quale gode, invece, di ottima salute e, quanto al voto, la parola tornerà ai cittadini nel 2013”. Ma poi si è dato la classica zappa sui piedi riconoscendo che sussiste una “distorta dialettica tra maggioranza e opposizione” e, soprattutto, una “lunga e irriducibile contrapposizione, al limite dell’incomunicabilità, tra le forze politiche” (situazione, aggiungo io, dovuta ai Suoi “compagni”, che non riconoscono a chi ha vinto le elezioni il diritto a governare). Nelle democrazie che godono di buona salute le decisioni del popolo sovrano – per quanto riguarda eletti e programmi – sono rispettate da tutti, anche dal capo dello Stato, che, anzi, è tenuto a vigilare sul rispetto della Costituzione.
Perciò non basta dire che la nostra democrazia gode di ottima salute sol perché è rispettato il diritto di votare, essendo necessario che sia rispettata la volontà del popolo sovrano: a che vale far votare i cittadini se poi non se ne rispetta la decisione canonicamente espressa? E’ indubbio che c’è necessità di cambiare scenario perché c’è una crisi del sistema parlamentare, crisi che non consente il regolare svolgimento della democrazia. Ma il cambiar scenario spetta ai cittadini, con il voto, e non al capo dello Stato, e neppure alle forze politiche presenti in Parlamento, le quali, peraltro, sono responsabili della mancata attuazione del programma sulle cui basi hanno avuto il consenso. E, se è vero che spetta al Presidente della Repubblica nominare il capo del Governo, è tuttavia vero che la nomina, secondo prassi costituzionale e secondo logica, deve cadere su un uomo politico (non basta un senatore a vita, alla bisogna nominato). E poi: nei momenti difficili in un Paese democratico normale non si mettono da parte le regole costituzionali per dar luogo ad un governo tecnocratico, nolenti i cittadini che devono sottostare. Un presidente della Repubblica rappresentante dell’unità nazionale di fronte ad una difficile situazione deve inviare un messaggio alle Camere inteso a mettere tutti i parlamentari di fronte alle loro responsabilità tese a fronteggiare la crisi economica; ed anche ad illustrare al popolo i motivi reali della crisi, che ancora oggi restano oscuri. E, ad esito negativo, deve ricorrere all’art. 88 della Costituzione. Unanime è la dottrina costituzionalista: quando il Parlamento non è in grado di funzionare regolarmente, come si riconosce da Napoletano, va sciolto.
Se la nozione di potere include il dovere di obbedienza (ogni persona, in quanto fa parte di una società giuridicamente organizzata, è obbligata ad obbedire a tutti i comandi legalmente posti dai soggetti cui l’ordinamento giuridico conferisce il potere), vi sono casi nei quali l’obbligo di obbedienza viene meno: si parla allora di diritto di resistenza nei confronti di chi esercita il potere senza averne il titolo o di chi abusa del potere di cui è legittimamente investito. La contestazione al potere nell’ipotesi di usurpazione – inteso tale termine sia nel senso del configurarsi del potere in modo contrastante con le specifiche regole costituzionali che lo disciplinano, sia nel senso di uso arbitrario del potere (cioè di uso non consentito dalle norme) legittimamente attribuito – è stata sempre ritenuta lecita, ancorché non sia prevista da norme.
Nel diritto pubblico inglese si era affermato il principio della limitata obbedienza al potere, da cui il corollario della resistenza, singola o collettiva, agli atti arbitrari dei detentori. Anche l’art. 2 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, proclamata dall’Assemblea nazionale francese il 26 agosto del 1789, annoverava il diritto di resistenza al potere tra i diritti naturali ed imprescrittibili; onde invalse la tesi secondo cui si deve obbedire senza riserva a tutto ciò che è legale e si deve resistere senza preoccupazione a tutto ciò che è arbitrario.
Da noi si sarebbe voluto includere il diritto di resistenza nella Costituzione: infatti il Progetto elaborato dalla Commissione dei 75 prevedeva al secondo comma del suo art. 50: “quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressore è diritto e dovere del cittadino”. Ma l’Assemblea fu di parere contrario, pur condividendo il principio: prevalse infatti l’opinione di coloro (tra i quali Giuseppe Bettiol) che ritenevano vano il voler regolare nell’ambito del diritto positivo un fatto di carattere rivoluzionario e a nulla valse l’opinione di chi riteneva invece opportuno l’inserimento in Costituzione del diritto di resistenza, che avrebbe avuto la valenza di remora nei confronti del detentore del potere.
E’ appena il caso di precisare che la resistenza al potere non va equiparata alla rivoluzione: mentre con questa ultima si intende il sovvertimento dell’ordine costituito (quella delle toghe fu detta appunto rivoluzione perché sotto l’apparenza della lotta alla corruzione attuò il ribaltamento delle classi al potere), per resistenza s’intende un’azione singola o collettiva, in forma prevalentemente non violenta, indirizzata vuoi a criticare scelte politiche, ritenute dai contestatori inaccettabili perché dannose, vuoi contro il potere arbitrario e/o contro gli atti posti in essere contro i diritti fondamentali della persona. Un eminente studioso statunitense ha scritto che lo Stato deve rendere legittima, se vuole prendere sul serio i diritti fondamentali dell’uomo, la disobbedienza alla legge e persino alle decisioni giudiziali che offendono quei diritti (Ronald Dworkin, “I diritti presi sul serio”, Bologna 1982).
Il nostro ordinamento giuridico prevede un caso di diritto di resistenza, stabilendo che non sono punibili le condotte violente o oltraggiose contro alcuni soggetti pubblici, quali pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio, corpo politico, amministrativo e giudiziario, magistrato in udienza, nel caso in cui essi eccedano con atti arbitrari i limiti delle loro attribuzioni (art. 4 del decreto legislativo 14 settembre 1944 n. 288, che ripristinò analogo principio del codice penale prefascista). Si tratta, però, come è evidente, di un caso specifico di legittima reazione agli atti arbitrari del potere, tuttavia costituisce certamente un punto di riferimento per la costruzione della teoria sulla resistenza al potere arbitrario. E va detto che l’Assemblea costituente condivideva, pur non accettando di costituzionalizzarla, la resistenza al potere arbitrario, come proposto dall’art. 50 del Progetto.
Contro il potere arbitrario del capo dello Stato, che non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, è possibile soltanto l’impeachment avanti la Corte costituzionale quando si verifica il tradimento o l’attentato alla Costituzione (art. 90 Cost.): ma si tratta di ipotesi più teorica che reale, come dimostra la storia repubblicana di oltre mezzo secolo; ed è ugualmente non fattibile, sebbene possibile, la resistenza a gli atti del Governo costituzionalmente illegittimo (come l’attuale).
Resta la strada maestra: l’art. 21 della Costituzione, di fondamentale importanza in un regime democratico. Infatti se tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero discende che la “critica” al potere arbitrario del capo dello Stato rappresenta un forma lecita (spesso doverosa, nell’interesse della collettività), purché – va da sé – non trasmodi in gratuite offese alla persona, nel qual caso si incorre in un reato (art. 278 del codice penale). Ovviamente la resistenza per essere legittima deve radicarsi nella giusta difesa della Costituzione e dei diritti fondamentali, come è della nomina di Mario Monti – illustre sconosciuto all’opinione pubblica – a senatore a vita, nomina che costituisce indubbiamente violazione dell’art. 59 della Costituzione.
Noi, nella nostra ignoranza dell’organizzazione dello Stato democratico e dello stato di diritto, abbiamo una visione mistica del capo dello Stato, quasi ieratica, come se per effetto della nomina Egli diventi intoccabile, ed esente da critiche, mentre nella realtà è dato constatare che si tratta di un uomo con “i suoi vizi e con le sue virtù, con le sue passioni e con i suoi orientamenti” (Carlo Esposito, in Enciclopedia del diritto, vol. VI, Giuffrè, 1960). E con il fardello, aggiungo io, di una sua storia politica che non si cancella, restandone per sempre l’impronta. Il nostro sistema partitocratrico non ha consentito una scelta condivisa del capo dello Stato, che deve essere al di sopra delle parti in quanto deve rappresentare tutta la Nazione: l’attuale capo dello Stato è il risultato di uno scontro – muro contro muro – tra le forze parlamentari, conclusosi con la vittoria del centrosinistra che impose un suo uomo.
Si può allora escludere che Napoletano abbia agito, nel dar vita al Governo Monti per un disegno politico? escludere, cioè, l’abuso di potere e la violazione delle regole democratiche? Per ora non ho elementi certi e definitivi per rispondere al quesito e pertanto mi limito a dire: ai posteri l’ardua sentenza.
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