Il carattere del temperamento italiano (Gobetti: oscillazione tra soluzioni totalitarie e anarchiche) conduce a scoperte molto interessanti. Vale dunque la pena di tornare brevemente sul tema al quale ho accennato nella mia scorsa nota.
Per inciso, correggo un erratum: in detta nota, rilevando questa oscillazione parlo di «palindromia» anziché, come avrei dovuto, di enantiodromia [a chi voglia approfondire l’argomento, consiglio gli interessantissimi testi di Gustav Jung sulla psicologia dell’inconscio).
E’ da dire anzitutto che questo indugiare tra le due soluzioni è atteggiamento tipicamente infantile – disobbedire a papà, o rifugiarsi da papà – un’ennesima riprova dell’immaturità politica di molti tra noi Italiani. Su di questa immaturità scrisse pagine assai penetranti il Leopardi (vedi p.es. Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani), e ad essa allude Henry James, l’autore americano di Giro di vite, quando, pur essendo ammiratore dell’atmosfera e dell’arte italiane, afferma che non eleggerebbe in Italia fissa dimora perché l’ambiente italiano alla lunga diseduca, per la mancanza di una società. Il che, fatta la debita tara dello snobismo del grande scrittore, che spesso si recava a Roma, anche per visitare Hendrik Andersen e il suo museo (dove si puo’ appunto vedere un busto di James opera dello scultore norvegese), è ancora un altro modo di dire la stessa cosa: agli Italiani manca quella «disciplina» collettiva, quella comunanza di modi, direi quella buona educazione, quella solidarietà nel sentire, che fa d’un popolo una «società»). E ciò, secondo James, al punto da rendere spiacevole, quasi… diseducativo, mantenersi troppo a lungo tra di essi. Come dire che da noi si tende a… sbracarsi.
L’altalena tra l’avvertire impellente la esigenza d’un uomo forte o, a vicenda, l’altra esigenza di mandare tutto al diavolo, è d’altra parte una chiarissima sindrome psicosociale che conduce ad una semplice diagnosi riassuntiva: indica con chiarezza una tendenza alla fuga dalla responsabilità. Tendenza del resto talmente forte, e diffusa, in tutto il genere umano, da aver fornito a Fiodor Dostoevskij la materia per una delle sue più geniali intuizioni: la ben nota «Leggenda del Grande Inquisitore» contenuta nei Fratelli Karamazov. A Cristo, che in epoca cinquecentesca torna sulla Terra, il Grande Inquisitore dice chiaro e tondo che ha sbagliato tutto: Egli aveva voluto, venendo la prima volta, donare agli uomini la libertà interiore. Ma gli uomini da sempre chiedono e implorano non libertà, come Egli ha creduto («nulla v’è di più intollerabile della libertà, per l’uomo e per la società umana»), bensì requie dal fardello della responsabilità. Questo spregiudicato, grandioso tema è talmente sentito ovunque, nella sua esistenziale e morale importanza, che da Dostoevskij in poi molti scrittori, russi e non, l’hanno ripreso e meditato. Qui tralasciamo il resto della meditazione dostoevskijana, secondo la quale la preziosa libertà potrà solo essere il dono finale che Dio largirà all’umanità finalmente matura.
Io non so se il nostro grandissimo Italo Svevo avesse in mente la «Leggenda» del Russo, quando, con il suo mirabile stile ironico, esplicito e contundente, fa dire la stessa cosa al protagonista del geniale romanzo-saggio La coscienza di Zeno. Il quale Zeno senza ambagi dichiara: «ah! sono finalmente felice, da quando mi sono liberato di quella libertà che voleva affibbiarmi quel babbeo del mio psicanalista!». O qualcosa del genere.
Fuga dalla responsabilità: al di là delle testimonianze letterarie, la stessa storia recente contiene in proposito molte testimonianze: ad esempio, quanti Polacchi fuoriusciti, dopo il ribaltamento politico di Solidarność, hanno dichiarato che «rimpiangevano il Comunismo, che almeno li liberava dalla responsabilità» ? Ed a che cosa credete voi alludesse Papa Woityla quando disse e ripeté le famose parole: «Non abbiate paura,… non abbiate paura!»
E’ per me ovvio che, dopo secoli e secoli di patimenti, gli Italiani (del Mezzogiorno, occorre forse precisare, ma non mi pare che Gobetti lo faccia) chiedessero alla ria sorte un qualcosa che li tirasse fuori dai guai: un uomo forte, o un radicale sconvolgimento anarchico che mutasse radicalmente le regole del triste gioco.
Dell’anarchismo esiste una critica estremamente facile, la seguente: affinché Tizio faccia l’anarchico, occorre inevitabilmente che Caio e Sempronio non lo facciano affatto, perché solo in un mondo ordinato che produca un minimo di possibilità di sopravvivenza l’anarchico può prendersi il lusso di fare il matto, abbandonandosi alla propria anarchia. In un ipotetico mondo già tutto anarchico, l’individuo anarchico potrebbe solo perire. La teoria anarchica è dunque una tipica pseudoteoria dalla impossibile realizzazione, in quanto negatrice di se stessa. Infatti: gli anarchici sono soltanto sporadici originali che non finiscono in manicomio solo perché sono inoffensivi.
La critica dei totalitarismi, invece, risulta alquanto più… difficile. Proprio ai nostri giorni se ne sta occupando la storia stessa, che ha già dedicato al triste problema, tanto per dire, l’intero secolo scorso. Ma è certo che ormai le società d’oggi, se e finché avranno memoria, devono e dovranno cercare altrove gli idola con i quali trastullarsi. E, scherzi a parte, probabilmente è proprio questo il malessere che attualmente tormenta le società d’oggi: abbiamo finalmente battuto la fronte contro il bastione dell’economia, tremendamente duro proprio perché è un duro «fatto» prodotto dalla volontà di poche forze concrete anche se non chiaramente identificabili. Un «fatto» che, finalmente lo constatiamo con chiarezza, è costituito dalle «volontà», dalla «fiducia», dalle «propensioni», dalle «scelte», dalla sconfinata «avidità» e dalle «paure» di soggetti dei quali sappiamo e non sappiamo l’ubicazione. Qui siamo alle prese con le bambole cinesi. E’ tutta volontà della «bambola» Merkel? Si e no: perché ci dev’essere qualcuno dietro di lei. E così via, una bambola dietro l’altra. Dunque a vario titolo, sia per intima qualità (i fatti economici sono sempre volizioni di «qualcuno») che per disposizione di chi lo brandisce, siamo alle prese con un vero e proprio «fatto-non fatto».
Del resto, molte delle «dure realtà» che ci circondano hanno questa inquietante, ambigua qualità di essere non duri fatti producenti durezza, ma bensì fatti prodotti dalla durezza di non identificate dure volontà. Si prenda ad esempio la misteriosa situazione di cui già ieri Feltri si chiedeva la spiegazione sul suo «Giornale» : ma dove sono andati a finire tutti gli indignati, tutti i lacrimanti e i piangenti, che fino a ieri riempivano cielo e terra con le loro furenti proteste; tutti scomparsi di colpo con l’avvento del governo Monti? Possibile che la sola persona di Berlusconi catalizzasse tanta cagnara!?
Quanto abbiamo esposto più sopra aiuta a dare una risposta. Certo è possibile, perche Berlusconi non è un «fatto», è un aborrito «produttore di prospettive, di possibili fatti». Ma perché proprio lui ha questa meravigliosa qualità, la capacità di mandare su tutte le furie la metà degli Italiani? Risposta: perché è stato lui, lui, tre volte lui, a mandare a carte quarantotto la «meravigliosa macchina da guerra» con la quale lo scadente meccanico Occhetto stava rimettendo in moto la solita marcia italiana verso il radioso futuro, ovvero la tiritera del «sempre cosí, Comunisti e Democristiani, noi fotteremo i fottibili Italiani!» Interrompere la cattocomunistica danza, provvido scudo contro la «responsabilità», scudo da noi periclitante dopo il beneamato e benefico «crollo del muro», questo è stato l’imperdonabile peccato, la non redimibile colpa di Berlusconi. (E questo, tra parentesi, è il segno della sua gloria: non per altro il Cav. passerà alla storia, e solo di lui ci si ricorderà tra cent’anni, rifacendo la historia triste y llorosa del Comunismo italiano e della sua indecorosa morte).
Ma, ritornando al tema dell’italica enantiodromia e della fuga dalla responsabilità, ci si potrebbe chiedere: se così stanno le cose, come mai la psiche degli Italiani non ha ravvisato in Berlusconi il «capo totalitario» di cui hanno tanto bisogno? La risposta è a portata di mano: Berlusconi è stato ed è una figura accostabile al prototipo del «padre», non a quello del «capo totalitario». La vera figura del padre, un padre degno del nome, nelle decisioni inevitabili imposte dall’esistere si limita a consigliare un modo di condursi, pone un problema ed una prospettiva. Il «padre» non è un «padrone». Aiutare a conseguire la libertà non è imporre un preteso unico modo della libertà; e persino Rousseau pecca di ingenuità quando mette fuori il suo famoso ossimoro «bisogna costringere gli uomini ad essere liberi». Detto in negativo: Berlusconi non era «abbastanza prepotente», per potersi identificare in una figura totalitaria. Ma questo era nelle premesse: perche egli era, e resta, un «liberale»: ch’è un tipo d’uomo di cui gli Italiani hanno bisogno, una figura che hanno conosciuto un tempo ma che ora tendono a dimenticare. Il liberale: il detentore del solo farmaco efficace contro la malattia enantiodromica.
Si noti, a riprova di quanto detto, che Monti sta per far trangugiare agli Italiani gli stessi bocconi amari che proponeva Berlusconi. Anzi, incredibile: più amari! Il che, ancora, dimostra varie cose: la prima, quanto, specialmente in clima «democratico», la politica dipenda non da «duri fatti» ma persino dall’ umore dei destinatarî. La seconda: che qui è la grande importanza del Governo Monti: far trangugiare (addirittura con soddisfazione?) il berlusconismo. La terza: Berlusconi forse sta vincendo ancora una volta in absentia. Quarta: che, insomma, stiamo assistendo ad un dramma politico (speriamo non una tragedia) in cui il liberalismo sta facendo spontaneamente una sua decisiva nuova apparizione. Infatti: ora la figura «totalitaria» è quella della Merkel (Sarkozy è il suo buffone di corte). L’anarchia è più lontana che mai, un mondo globalizzato non è terreno adatto alla pianta anarchica. Gli italiani, in questi inediti frangenti, possono finalmente decidersi a decidere, e comprendere che comportarsi secondo libertà, comportarsi da adulti, è forse la scelta intelligente, il miglior consiglio.
Certo, è difficile. Ma ricordarsi sempre che, come diceva un grande personaggio di cui non ricordo il nome, «il liberalismo è l’unica utopia che valga la pena di realizzare su questa Terra, perché è l’unica utopia vera, la più difficilmente realizzabile di tutte le utopie».
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