Il momento politico è talmente miserabile, disgustoso, indecente, che ho pensato valga la pena, per una volta, dire: basta bugie e leccosità ipocrite!, e «cambiar dolore», come diceva Aleardo Aleardi.
Il dolore che scelgo riguarda lo stato della tradizione culturale dell’Italia del Sud e dei suoi monumenti, che ne sono i venerabili equivalenti fisici. «Ne sono?» Spesso, ahinoi, ormai vien da dire «ne furono». Bisogna che ci svegliamo una buona volta: qui la situazione è di disastro, e su tre piani: 1 comprensione del valore dei singoli monumenti, ambienti, episodi culturali; 2 loro conservazione: metodi e tecniche che, per tragica inadeguatezza, parlano chiaro sullo stato culturale e direi addirittura «mentale» di noi indigeni; 3 puntuale rispetto dell’ambiente che ospita il singolo monumento. In altre parole: la testimonianza fisica del passato bisogna «vederla» (non solo «guardarla», come dice Mallarmé nel suo toast dedicato a Théophile Gautier), capirne l’importanza, provvedere filologicamente al restauro, reprimendo idiote vanità e indecenti tentazioni di completamento dell’ «intorno».
A volte il monumento e l’ambiente sfumano l’uno nell’altro, ed allora alla difficoltà della conservazione si unisce un raddoppiato interesse. Ho sottomano, a mia disposizione completa perché lo conosco assai bene, il caso della straordinaria arte figurativa di mia madre e del castello di Torella del Sannio che la ospitò. Si tratta di uno scandalo generato da ignoranza e da incuria. Mi rendo conto che il fatto che sia io a denunciarlo ne diminuisce l’importanza. Ma la gravità del caso costringe a violare le regole della discrezione: l’informazione culturale ha bisogno di rinforzi, e io qui ne fornisco uno.
Non c’è nulla di più triste di un paesaggio dell’Italia meridionale disertato dalle tracce dell’uomo. Subito si scende al livello del cespuglio di quercia con rare bacche, dei campi tristemente disseminati di sterpi e di cardi, di vegetazione invernale quasi canuta, di «passeri solitari» che zirlano nel circostante deserto, sentieri che si perdono nel nulla, cieli sbiancati, nuvole che trascorrono, indifferenti ai nostri drammi. Detto a rovescio: l’Italia non può fare a meno della sua anima, che è la cultura, perché di questa è il frutto: è nata da tremila anni di cultura compartecipata. E’ questo il suo connettivo, la sua vera ed unica possibilità di gioia. La gioia di vivere, che altrove può significare molte altre cose, qui significa vicinanza di una cattedrale, prossimità di un battistero, facilità di entrare in un chiostro o in un museo. E’ a Siena, a Volterra, a Salerno, ad Amalfi, a Noto -, è ovunque, in Italia, che vive il gioioso «salotto della cultura e dell’arte».
In Molise, terra in cui la cultura ha fatto dietro-front, si avverte ancor più drammatica la scomparsa di questa umana «compagnia». Qui, chi raccolga, rimetta in sesto, riprenda una traccia del passato, è qualcuno che ci salva dal silenzio dello Spirito ammutolito. In Molise, gesti del genere sarebbero, sono indispensabili. Ci sono, anche in Molise, messaggi sepolti, tracce semidisperse, interi villaggi, necropoli, teatri che il tempo sta cancellando per sempre. Altrove ciò è grave; qui in Molise è esiziale perché la regione, ripeto, ha dimenticato se stessa.
In questo sonno della dimenticanza dorme mia madre. Napoletana di famiglia molisana, Elena Ciamarra fu una disegnatrice e pittrice di grandissimo valore. Osservatene qualche testimonianza su Internet. Diede, forse, il maggiore contributo italiano all’arte figurativa del ‘900. Quasi nessuno lo sa. Visse tra Napoli (poco) e Torella del Sannio (poco meno che sempre). In compenso, viaggiava molto, tra musei e sale di concerto di tutta Europa. Contattò Angelo Conti e Guardascione, Kreutzer figlio, André Lhote, Kokoschka, Campigli, Survage… Al Molise, terra, ripeto, di tradizioni culturali semidisperse, sarebbe convenuto sottolineare di essere la patria d’elezione d’uno dei più grandi disegnatori italiani del secolo scorso. Ho invano tentato, negli anni, di convincere di ciò i miei conterranei. Il ministro Bondi, per vero, comprese l’importanza della cosa e pose buone premesse per una degna sistemazione. Ma poi venne fuori la vergognosa truffa dell’episodio di Pompei – il segmento di muro caduto -, e Bondi, uno dei pochi galantuomini d’Italia, fu ingiustamente defenestrato.
Il castello di Torella, ricco di circa 2000 disegni e olii di mia madre, non viene visitato abbastanza. Vi si conservano, quasi a commento delle opere, anche un piccolo fondo di lettere di Angelo Conti, che fu suo amico ed estimatore, e una ricca raccolta di comparse rilegate di mio nonno avvocato: quasi tutte le vicende legali del Molise tra fine 800 e primo 900. Un giudizio sull’arte di mia madre? Eccolo: dotata di uno strepitoso dono naturale – cogliere attraverso la forma quella che Musil chiama la “realtà spettrale” -, in 60 anni di appassionato, severo lavoro trasformò questo dono in «virtu’ dianoetica», lo costrinse a passare per l’intelletto. Il risultato fu una incredibile sintesi: di pochi, ma concentrati segni. E aggiungasi: niente «manifesti», niente contenuti letterarî e incrostazioni ideologiche. Comprensione del reale attraverso la forma, e basta.
Erano queste, e sono, le premesse sufficienti ad istituire un centro culturale di grande livello: come a Saint Germain-en-Laye per Maurice Denis; a Vence per Chagall; e un po’ ovunque in Francia per artisti grandi e piccoli. Ma la Francia cura con grande attenzione il proprio volto culturale; noi no.
La malinconica storia non finisce qui. Molti artisti e persone di cultura passarono per la casa torellese di mia madre. Domenico Rea, Raffaello Franchini, Rosario Assunto, Gino Magnani, Benedetto Nicolini, Jean Pierre Friedman, Ladislas Posfay, Ramón Gaya, Enrique de Rivas, Vittorio Sgarbi etc. Ma c’è come un cerchio magico di silenzio. Strana situazione. Comprendo la possibilità e la facilità di voltare al comico la faccenda. E’ come tentar di vendere un formaggio che solo il produttore definisce ottimo perché nessuno l’ha gustato. Dell’acquaiolo che loda la freschezza della sua acqua solitamente si ride.
Ma c’è dell’altro: siamo stati per anni amici di Margaret Phillips Harmsworth, scultrice anglo-americana di gran pregio, che i turisti anglosassoni conoscono e seguono tra Londra, New York e il Quai Voltaire. Affascinata dalla singolarità del villaggio, dell’opera di mia madre e insomma della straordinaria tradizione artistica di cui ho detto qui sopra, la Harmsworth decise di far dono al Comune di Torella di una sua molto bella «Bagnante» a dimensione quasi naturale, che fece fondere appositamente in bronzo verde dalla fonderia Landowski di Batignolles, e offrì su di un piatto d’argento ai Torellesi. Un dono principesco, fra l’altro, letteralmente «milionario». Che avrebbe dovuto abbellire la fontana principale del nostro villaggio: e questo sarebbe stato, tra l’altro, un formidabile richiamo per il turismo colto di lingua inglese.
Il Consiglio Comunale di Torella storse il naso, e incredibilmente… rispose con un elegante, stolido no. Ai villani dispiacque specialmente il fatto che la bagnante avesse i seni esposti, e lo dissero tra grasse risate e pernacchie dai notevoli decibel. Margaret, non credendo alle sue orecchie ed ai suoi occhi, dovette tenersi la Bagnante a Parigi, rimettendoci, tra l’altro, un cospicuo gruzzolo.
Al posto della “Bagnante” il Consiglio comunale, risvegliatosi dal normale suo sonno, pensò bene di esporre un informe «soldatino di piombo», quelli di serie, che tuttora deturpa il sito e non fa onore né ai soldati d’Italia, né a noi Torellesi, ricoprendoci anzi d’uno spesso velo di ridicolo (la bruttezza fa ridere).
Spesso, quando torno al villaggio, siedo sulla panchina innanzi al bar e penso: sarebbe stato bello, per Torella, ospitare la Bagnante della Harmsworth e il Museo di Elena Ciamarra! Il turismo colto avrebbe cominciato a deviare, al di sotto di Roma, tra i campi molisani, allungando di poco il grand tour, docile ai soliti motivi per cui si viaggia: scoprire cose interessanti, belle, nuove.
Tra l’altro, aggiungo una nota cretina ma importantissima coi tempi che corrono: con le sue due artiste, Torella avrebbe costituito una specie di hàpax, un unicum: un «santuario del femminismo d’arte»… Vi sembra poco!?
Al nostro stolido villaggio resta invece l’annuale sagra del Torciniello, la festa del baccalà con peperoni fritti, il solito appuntamento con cantanti che berciano a squarciagola canzonacce trapunte di male parole perché, si sa, la mala parola fa ridere, riesce sempre.
Cio’ ingenera una certa tristezza, e un vago mal di stomaco. Intanto i preziosi lavori di mia madre invecchiano nell’umido, i fogli ingialliscono e s’accartocciano, i colori sbiancano, le pennellate ammuffiscono attaccate dagli ossidi. Che fare? La risposta c’è, ed è la seguente: se l’Italia è cretina, non è certo colpa mia.
Nota Bene: quanto sopra non ha riposti scopi di propaganda commerciale. Io e mia moglie, da anni, abbiamo vincolato l’intera collezione e gli spazi che la contengono allo Stato, il quale ovviamente se ne fotte. Mai «dono» fu più sgradito. Ma intanto noi siamo volontariamente diventati proprietarî d’un bene indisponibile. Ci restano soltanto, «beni» anch’essi inalienabili, la consapevolezza e l’onore «clandestino» (quello vero -, non l’altro, che spesso è di cartapesta) di esserci comportati come si deve nei confronti delle cose di valore. Dico quel valore autentico che è contenuto nelle faccende ch’è elegante definire «cose dello Spirito», con vocabolo ben invecchiato, e pertanto inadatto al rapido consumo prediletto dal «televolgo».
Questi valori sono come il vino: che, certo, se è di ottima qualità invecchia bene in silenzio. Ma poi, docili anch’essi alla legge del tempo, se ne torneranno nel regno dei ricordi (l’Acasha lo chiamano gli Indiani, che di queste cose sanno).
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