«Ora io, che sono aristocratico per nascita, son democratico per scelta… io chiedero’ il permesso di fare una profezia, e dire che l’Italia e l’Europa ed il mondo giammai avranno riposo… finchè la vera democrazia non reggerà incontrastata sulle rovine di due privilegi: dell’antico e del nuovo… Finchè non sarà assimilata, trasfusa nel sangue dell’universale la persuasione di non esservi né governo, né indipendenza, né libertà possibile senza responsabilità legale d’ogni potere, d’ogni partito, d’ogni associazione come d’ogni individuo ridotto in fatto vero, reale…»
Massimo D’azeglio – I miei ricordi
C’è stato un tempo in cui c’erano gli Italiani anche se l’Italia non c’era.
L’autunno si addice a questa domenica strana. Niente donzellette, niente rose e viole nel sabato del villaggio globale, è andata in scena, sulla tribuna del mondo la rappresentazione – un po’ artefatta, sicuro, ma solo un po’ – d’una moltitudine che si compiace di una sonora sconfitta della sua democrazia.
Il popolo illiberale non ha saputo riconoscere a Berlusconi nessun merito, neanche quello di farsi da parte elegantemente accettando perfino il ricatto, per il bene dell’Italia, della sua Italia. In fondo un animo nobile si distingue non tanto per come agisce, ma per le rinunce delle quali è capace. La storia carogna non si interrogherà certo sulle ragioni per le quali un uomo, un imprenditore di successo, decise di scendere nell’agone politico e dedicare diciassette anni della sua vita a servire una patria ingrata. Riporterà pedissequamente le tesi di una piccola tignosa che per snobismo da Concetta si fece Concita: “é entrato per i suoi interessi e per i suoi interessi è uscito”. Quelle danze scomposte, quei trenini demenziali, fanno più male delle monetine del Raphael a chi coltiva ingenuamente ancora una speranza di paese normale: perché documentano che vent’anni sono trascorsi invano e che gli abitatori di questo meraviglioso stivale non hanno maturato coscienza civile, né senso delle istituzioni, né voglia di costruire un’identità.
Tutti si sono affannati ad immortalare la caduta del “tiranno”. Il Corsera, servo prezzolato dei vincitori stranieri, si è fatto un dovere di offrire ai guardoni di tutta la terra una squallida interminabile diretta, nella speranza, forse, di afferrare al volo uno sberleffo speciale, magari una statuina, che meglio documentasse l’odio della massa indottrinata. Purtroppo per loro, nulla è accaduto: Silvio Berlusconi è tornato a casa sua come un semplice impiegato che si congeda dai suoi colleghi d’ufficio senza che nessuno abbia trovato giusto riservargli un ringraziamento per il servizio svolto. Ma la sinistra è cosi’: blatera tanto sul lavoro ma disprezza chi lavora sul serio.
Difficile che il Cavaliere – a cui da Italiana all’antica riservo la mia gratitudine ed il mio affetto – abbia voglia e motivazioni per impegnarsi ancora per questa Italia: non gli piace, cosi’ come non piace a noi. L’amarezza del suo volto, che nessun trucco può nascondere, svela il disincanto: la devastazione della coscienza collettiva lascia pochi margini all’ottimismo.
Di relativismo si muore. L’educazione di un popolo – laica o religiosa – presuppone la “fede” in un ideale tanto immateriale quanto necessario per trasformare esseri banalmente viventi in protagonisti attivi di un destino. Invece la “persona” etimologicamente preposta a vibrare di passione e di suono, ormai si tace e lascia tutto lo spazio alla cacofonia della massa.
Obbediente al comando della sola violenza, essa sputa, insulta, sghignazza e si fa largo a spintoni per portarsi a casa la foto ricordo della vittima, sennò a che serve far la fila per ore davanti al megastore per comprarsi l’ultimo modello?
Si dice che la moneta cattiva scacci sempre la buona. E non si parla solo di euro. Se la coscienza dorme, l’unica legge in vigore è quella del più forte. La massa s’inebria in una dionisiaca senza fine: Piazzale Loreto, Piazza del Duomo, Quirinale: sono fotogrammi dello stesso lungometraggio. Spariti dalla sequenza-Italia il sorriso gentile della “brava gente”, le famigliole riunite intorno al desco della festa, la bellezza straziante delle nostre rovine e dei nostri borghi, la compassione, la cortesia, la dignità, l’aria delle città tersa come le coscienze.
Famiglia. Patria, educazione, memoria: fondamentali che facevano di noi una Nazione della quale, nonostante i trascorsi non troppo edificanti, andavamo ancora fieri. Quattro baluardi che stavano a guardia delle concordia, di quella musica di fondo che caratterizza i figli d’una stessa terra e che impedisce gli odii ed il fratricidio. C’era la politica, ma c’era soprattutto la vita.
Gli italiani non sanno più sorridere, si guardano tra loro in cagnesco ringhiando appartenenze di cartapesta: partiti, sindacati, padanie, terronie, monarchisti, secessionisti. Chiedono vendetta, mai giustizia, quantità, mai qualità, oggetti, non poesia.
Berlusconi arrivava dal passato, con il suo bagaglio di uomo del dopoguerra d’ingenuo ottimismo ed entusiasmo civico. Ma è più facile ricostruire dalle macerie di una guerra che dalle macerie dell’anima. In fondo, perfino il presidente Napolitano ha preso le meste sembianze d’uno sbadato notaio di paese. Fosse stato un Grande, avrebbe nominato anche Berlusconi senatore a vita in omaggio alla verità, contro la menzogna elevata a sistema. Sarebbe stata la miglior risposta ai signori dello spread ed a tutti i denigratori che per avere la testa di un uomo, hanno venduto la loro patria allo straniero. Ma il coraggio è virtù di pochi.
Ma ora che il Cav ha tolto il disturbo, a corto di nemici freschi, tricoteuses e monatti saranno di fronte alle loro responsabilità. Un campo dove si semina, artatamente gramigna per diciassette anni, non può dare grano. Potrebbe esserci una foto ricordo, anche per loro. Piazzale Loreto è sempre dietro l’angolo.
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