Wikipedia nei giorni scorsi ha lanciato un allarmante avviso ai suoi lettori: Wikipedia – scrive – diventata una “nuova e immensa enciclopedia”, vede i suoi pilastri – neutralità, libertà e verificabilità dei suoi contenuti – fortemente compromessi dal ddl, che al comma 29 prevede l’obbligo per tutti i siti web di pubblicare, entro 48 ore dalla richiesta e senza alcun commento, una rettifica su qualsiasi contenuto che il richiedente giudichi lesivo della propria immagine. Purtroppo – aggiunge – la valutazione della lesività di detti contenuti non viene rimessa a un Giudice terzo e imparziale, ma unicamente all’opinione del soggetto che si presume danneggiato. La conclusione che Wikipedia trae da questa modifica normativa è questa: “chiunque si sentirà offeso da un contenuto presente su un blog, su una testata giornalistica on-line potrà ‘arrogarsi’ il diritto – indipendentemente dalla veridicità delle informazioni ritenute offensive – di chiederne non solo la rimozione, ma anche la sostituzione con la sua ‘rettifica’, volta a contraddire e smentire detti contenuti, anche a dispetto delle fonti presenti”. Ciò costituisce – a giudizio di Wikipedia – una inaccettabile limitazione della propria libertà e indipendenza, che “snatura i principi alla base dell’Enciclopedia libera e ne paralizza la modalità orizzontale di accesso e contributo, ponendo di fatto fine alla sua esistenza…”
L’accusa, di chiara intonazione catastrofica, è manifestamente infondata. La novità che si sta introducendo non è altro che una estensione della disciplina della rettifica prevista per la editoria, a norma della quale, nel caso in cui la richiesta di rettifica non sia accolta dalla testata il richiedente può adire il giudice (che è sempre il tribunale in composizione monocratica, essendo stato soppresso il pretore, con efficacia dal 19 luglio 1998. poi prorogato fino al 2 giugno 1999) affinché ordini alla testata la pubblicazione della rettifica. Unica novità (di un certo rilievo) è costituita dalla precisazione, contenuta nella legge in discussione in Parlamento, secondo cui “le rettifiche o dichiarazioni devono essere pubblicate senza commento.
Ci si potrebbe chiedere, sia pure retoricamente, se esista la possibilità che questa legge finisca con l’essere una specie di censura (autocensura), nel caso in cui la testata non voglia affrontare i costi del processo. Pare opportuno riflettere – senza con ciò voler salire in cattedra, ma, semplicemente esprimere una opinione, comunque aperta al confronto – sul significato politico-giuridico della “rettifica”, che è uno dei primi provvedimenti emanati dal Parlamento repubblicano (anzi la legge altro non è che una rielaborazione del disegno steso dall’Assemblea costituente nella veste di legislatore ordinario).
Come tutti sanno la Costituzione sancì all’art. 21 la più ampia circolazione delle notizie e delle opinioni (quindi informare ed essere informati), anche al fine della formazione della pubblica opinione su temi d’interesse generale (della politica, della gestione della res pubblica, dell’economia, dell’amministrazione della giustizia, eccetera); ma non tutti sanno (o fanno finta di non sapere) che questa libera circolazione ha, per implicito, sia un limite nella esigenza della correttezza dell’informazione che si fa circolare (perché l’opinione pubblica possa formarsi correttamente), sia, soprattutto, nella esigenza del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo (art. 2), tra i quali primeggia quello della onorabilità della persona, la cosiddetta dignità della persona umana.
E, dunque, se sussistono due diritti costituzionali, entrambi di prima grandezza – quello della libertà dell’informazione e quello del rispetto della dignità della persona il legislatore lungi dal far prevalere l’uno sull’altro, ha operato con la legge fondamentale sulla stampa un bilanciamento delle due opposte esigenze: libertà di stampa, ma anche potere della persona di far valere, con la rettifica, la tutela della propria dignità.
Questo potere – che si chiama nel linguaggio giuridico, diritto “potestativo” – consiste appunto nella capacità d’imporre la propria volontà a un soggetto pubblico o privato, così nella rettifica, il soggetto impone l’obbligo di pubblicazione della rettifica a carico del titolare della testata – indipendentemente dalla fondatezza, o meno, della stessa. In realtà quello di cui all’art. 8 della legge sulla stampa non è propriamente un obbligo, bensì una “soggezione”: dal momento che il soggetto, che si ritiene leso nella sua dignità, richiede la pubblicazione della rettifica, la testata versa in una situazione di soggezione, essendo obbligata alla pubblicazione. La quale può avvenire se l’obbligato non adempie l’obbligo, iussu iudicis.
Il provvedimento del giudice che ordina la pubblicazione della rettifica – e che eventualmente irroga una sanzione amministrativa per la colpevole mancata o incompleta pubblicazione – non è emesso all’esito di un processo ordinario, che postula il contraddittorio tra parti e la valutazione del giudice sulla fondatezza del ricorso, ma è un provvedimento cautelare di urgenza (nel timore che il ritardo possa rendere inutile la tutela del diritto che si vuol far valere), adottato sulla base del solo ricorso (ed allegati), senza che debba essere sentito il titolare della testata su cui incombe l’obbligo della pubblicazione. Perciò non c’è carico di spese che eventualmente gravano sul ricorrente se il giudice ritiene che la richiesta di pubblicazione della rettifica non è pertinente allo scritto di cui alla testata, ovvero se la rettifica ha contenuto suscettibile d incriminazione penale (ad es. la calunnia).
Se le sopra indicate considerazioni sono esatte – e a me sembra lo siano, salve eventuali opinioni contrarie – la ipotesi di una censura operata dalla legge non ha alcun fondamento giuridico e politico, giust’appunto perché la obbligatoria rettifica, ancorché fondata esclusivamente sulla soggettiva valutazione del soggetto leso dallo scritto diffuso dalla testata, si radica in un valore costituzionalmente protetto.
Il responsabile della testata, nonostante ritenga di essere nel vero, deve soggiacere alla richiesta di pubblicazione della rettifica. Non importa che lo scritto (ritenuto) offensivo sia contenuto in un sito web: la esigenza della tutela dell’onore della persona impone che il sito si organizzi a tal fine.
Insomma prevale sempre l’esigenza avvertita fin dall’antico diritto romano del neminem laedere.
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